1921: i perché della scissione

22.01.2021

Il centenario dalla nascita del Partito comunista italiano si porta dietro, come prevedibile, una discreta quantità di libri, articoli, analisi. Avendone letto alcuni e sfogliato altri, l'obiettivo dell'anniversario sembra essere fondamentalmente uno: quella scissione non s'aveva da fare.

Vecchio schema, si potrebbe dire, non molto originale. Quante volte abbiamo letto e discusso del presunto avventurismo di quel pugno di combattenti, Antonio Gramsci, Amadeo Bordiga, Angelo Tasca, Umberto Terracini, Palmiro Togliatti, che invece che omaggiare la giusta e naturale unità della sinistra si sono lasciati avviluppare dal settarismo e dalla presunzione di sufficienza.

Eppure in questi complicati anni Venti del 2000, stretti tra la crisi economica e la crisi pandemica, l'attacco maggioritario è diretto soprattutto al nocciolo di verità che la scissione del 1921 - l'uscita dal congresso del Psi per andare a proclamare nel teatro Marconi di Livorno la nascita del Partito comunista d'Italia (Pcd'I) - rappresentò. Insomma, per non girarci intorno, a essere rimessa in riga, anzi riposta nei cassetti della storia, è di nuovo l'opzione rivoluzionaria, scandalo ricorrente della politica moderna e contemporanea.

Il «vento della rivoluzione» (dal titolo del volume dedicato al centenario a firma di Marcello Flores e Giovanni Gozzini) è la causa che spiega tutto o quasi di quella vicenda e l'esistenza in vita di un partito che si è chiamato comunista fino al 1991-92 ha sempre rappresentato, anche nonostante i suoi dirigenti, la memoria di quell'ambizione, la rottura con lo stato di cose presenti. L'impeto rivoluzionario, originato dall'evento-chiave della Rivoluzione russa del 1917, si espande nel resto d'Europa e fa scattare, per ragioni interne ed esterne, la formazione di nuovi partiti comunisti dopo il fallimento della Seconda Internazionale e l'allineamento della maggior parte dei partiti socialisti alle ragioni belliche del proprio governo nazionale. Il contrario di un internazionalismo che invece viene rinfocolato dalla presa del potere in Russia, dal balzo in avanti compiuto dai Bolscevichi guidati da Lenin e Trotsky, che rinsalda la convinzione di una possibilità finora inespressa.

Ed è curioso che il nucleo di verità, politico e storico, che spiega quegli avvenimenti, sia rintracciabile nel libro di Flores e Gozzini solo in una Postilla che, sia pure elegantemente, argomenta l'evitabilità della rottura. In quella Postilla si legge così che l'aspetto più importante di quella vicenda è che «il comunismo è stato un ideale». A muovere milioni e milioni di uomini e donne, compresi i dirigenti politici, c'è un sentimento profondo che si mescola ad altri e al fondo «dell'ideologia di partito, delle scelte dei gruppi dirigenti, degli errori clamorosi, delle rigidità settarie si colloca questo nucleo originario di solidarietà con i più poveri, di miglioramento di sé e degli altri, di reazione al male e di propensione verso il bene».

Se assumiamo questa affermazione come angolo di osservazione di una ricostruzione, dichiaratamente di parte, le cose si snodano in modo molto più semplice delle ricostruzioni postume, spesso posticce, e l'analisi di quei giorni epocali e dei decenni successivi si può comprendere con categorie più consone a chi scrive e a chi dà vita a questa rivista.

Si può capire meglio, infatti, la mossa iniziale, la rottura del gennaio 1921 - che in realtà matura nei mesi precedenti - come passaggio in cui la componente comunista del Psi decide che non ci sono più i margini all'interno di quel partito per portare avanti le idee di fondo che la rivoluzione d'Ottobre ha affermato quattro anni prima.

Con il senno del poi è abbastanza facile poter rimproverare ai comunisti di aver rotto il partito socialista proprio nella fase di crescita del Fascismo, che si affermerà un anno e mezzo più tardi con la Marcia su Roma. Ma questa posizione, ben evidente, ad esempio, nei libri di Ezio Mauro o di Piero Fassino, non tiene conto sia del fattore internazionale, la pressione costante del partito russo che spinge per andare alla resa dei conti con i riformisti - e il punto che origina la scissione, in fondo, è la richiesta al Psi di espellere i riformisti capeggiati da Filippo Turati - sia del dibattito interno.

Nel 1920 viene lasciata cadere, dalla maggioranza del Psi e dal suo rapporto con il governo Giolitti, la grande mobilitazione operaia che dà vita ai Consigli operai, il fulcro dell'azione politica dell'Ordine nuovo, il giornale nel quale si raccoglie il gruppo dirigente torinese che con Antonio Gramsci darà vita al Pcd'I. Quella vicenda è emblematica dei limiti del riformismo italiano e Gramsci ne addebita l'esito negativo alla «cortezza di mente dei responsabili del movimento operaio italiano» anche se il ripiegamento gli fa vedere per la prima volta «la mancanza di coesione rivoluzionaria dell'intero proletariato italiano che non riesce a esprimere dal suo seno una gerarchia sindacale che sia un riflesso dei suoi interessi e del suo spirito rivoluzionario» (L'Ordine nuovo, maggio 1920). Più avanti, a scissione consumata, Gramsci definirà il Psi come «il partito di Pulcinella»:

Pulcinella è il tipo classico del popolo italiano, fannullone e menefreghista e il Partito socialista, in alcuni suoi atteggiamenti, ha realmente ben incarnato questo tipo [...] Gli hanno insegnato che la lotta di classe è come un gioco dove egli è destinato ad avere sempre ragione, perché a dargli questa ragione pensa la Storia, una divinità superiore (Pulcinella e la storia, L'Ordine nuovo, 16 aprile 1921).

Questo è il contesto in cui avviene la scissione che si inserisce nel quadro del dibattito internazionale costruito dalla Rivoluzione russa. Senza la quale, ci pare ovvio segnalarlo, la nascita del Partito comunista italiano, e di quelli europei, probabilmente non ci sarebbe stata.

Nel vivo dei primissimi anni Venti del Novecento occorre valutare l'intrico di relazioni politiche, umane e culturali che spingono all'azione dirigenti e militanti e che può essere dedotto da almeno tre elementi: quello emotivo e passionale che infiamma le masse, ormai protagoniste della politica di inizio Novecento, all'insegna del «fare come in Russia». Un dato politico-sentimentale il cui precedente più importante può essere rintracciato solo nella Rivoluzione francese di fine Settecento. Il mito della rivoluzione, il fascino di Lenin, il prestigio dei comunisti si servono di un elemento essenziale della lotta politica: hanno avuto successo, non si vede perché non possano essere replicati anche in Europa. E così tutta l'attività dei partiti socialisti, non solo quello italiano, viene scossa dalla variante comunista: le tattiche parlamentari e anche i giochi di sponda che ad esempio Turati in Italia conduce con i liberali di Giolitti, vengono sfidati dall'ipotesi rivoluzionaria.

Nelle prime elezioni a suffragio universale maschile del 1919, del resto, il Psi ottiene il 32% dei voti e il Partito popolare il 20%. Le masse sono ormai protagoniste e quindi la dimensione parlamentare occupa un ruolo decisivo nel dibattito e nelle scelte dei socialisti italiani. Le due strade si stagliano di fronte ai dirigenti del movimento operaio italiano: «fare come in Russia» oppure continuare il gioco parlamentare. L'alternativa secca è questa. Pesa, certamente, l'incognita della pressione russa dettata spesso più dalle preoccupazioni di politica estera del nuovo governo di Mosca che da compiute analisi politiche e sociali. Quelle pressioni o quelle lusinghe precipitano in un contesto segnato dal lascito pesante della Grande guerra che ha mobilitato enormi masse, le ha segnate profondamente, ha impoverito milioni di proletari e ha posto con più nettezza l'opzione tra scelte fondamentali.

In secondo luogo pesano le dinamiche dei gruppi dirigenti. Il prestigio dei comunisti russi e la rinascita di un'Internazionale costituiscono un collante inevitabile per chi pensa alla rivoluzione in Occidente. E questa dimensione si cristallizza nei congressi dell'Internazionale che determinano, in forme non più comprensibili con le categorie attuali, le scelte nazionali. Il passaggio chiave in questo senso è il II congresso del Comintern nel 1920 che approva quei 21 punti che costituiranno la base del Manifesto-programma della sinistra Psi. Tra quei punti c'è l'espulsione dei riformisti dal partito socialista e c'è la convinzione che la rivoluzione verrà.

Si sono fatti errori di valutazione? Certamente. I dirigenti comunisti che guidano la scissione inclinano piuttosto platealmente a un ideologismo assoluto con forme di settarismo rintracciabili nei documenti. Pesa moltissimo, poi, l'ipoteca di Mosca che accompagna qualsiasi scelta dei successivi decenni. Farà fatica a imporsi, per moltissimo tempo, un approccio unitario con il resto della sinistra, rifiutato nei primissimi anni e, di fatto, abbracciato solo dopo la svolta dei «fronti popolari» impressa da Stalin nella seconda metà degli anni Trenta, ormai concepiti in un'ottica di mediazione e compromesso.

È lo stesso Gramsci, del resto, a confessare il suo «pessimismo» a valle della vicenda dei Consigli che, però, non lo spinge a rivedere il suo giudizio sul «partito di Pulcinella». Di cui probabilmente, fino alla concezione delle «casematte», sottovaluta la forza di insediamento sociale, l'arcipelago di strutture sindacali, cooperativistiche, associative che ne fanno una struttura di riferimento inaggirabile.

C'è infine anche l'equilibrio interno alla sinistra socialista che si raccoglie attorno al Manifesto con il ruolo prioritario di Amadeo Bordiga, il più determinato a costruire l'organizzazione anche se quello più «settario» e «puro» dal punto di vista dottrinario. Il gruppo torinese di Gramsci, Terracini e Togliatti all'inizio è minoritario, ci vorrà qualche anno prima di arrivare all'affermazione di Gramsci come capo del partito.

Condizioni e cause eccezionali, soprattutto uniche, spiegano quel passaggio storico e ne condizionano la vita nei primi due decenni: il rapporto con Mosca, l'altalena nei rapporti con il Partito socialista e il fronte antifascista. I nuovi equilibri del gruppo dirigente ruotano attorno a una strategia che ha uno sbocco cruciale: la rivoluzione.

E la rivoluzione resta il sottofondo inesplorato, ma inaggirabile, anche del «partito nuovo», la seconda vita del Partito comunista dopo la fase drammatica e tragica dei suoi primi due decenni. Decenni in cui si sconta l'imprigionamento e la morte per mano fascista del suo leader e intellettuale indiscusso. In cui si assiste alla decimazione dei militanti e dei dirigenti a opera del regime di Mussolini. Decenni, almeno due, in cui si è sballottati dalle oscillazioni imposte dal Pc russo, prima con la linea del «terzo periodo» e la definizione suicida del «social-fascismo», poi con i «fronti popolari»; prima con il patto con la Germania, poi con la resistenza anti-nazista. Sono gli anni della violenza dei processi di Mosca, della stalinizzazione definitiva del movimento comunista, dall'azzeramento del Comitato centrale italiano per ricostruire da capo il partito sotto il dominio assoluto di Togliatti.

Eppure, sarà ancora il «mito» rivoluzionario, rinfocolato dagli esiti della guerra e dalla resistenza condotta dall'Unione sovietica, a condizionare gli anni successivi al conflitto mondiale. Il modo e le ragioni con cui Palmiro Togliatti determina la svolta del «partito nuovo» sono note. Il «Migliore», che è diventato durante il fascismo un ganglio essenziale del Comintern e più che esecutore delle direttive staliniane rappresenta un tassello della direzione comunista internazionale, inaugura la strada di un partito che abbia il compito essenziale di gestire la scelta strategica internazionale dell'Urss: la «coesistenza pacifica».

Sulla svolta di Togliatti si sofferma Luciano Canfora nel piccolo volume La Metamorfosi che si conclude - dopo aver definito «necessaria la rottura» comunista così come fu necessaria la Riforma protestante - con l'invito a ricomporre la sinistra nella socialdemocrazia, l'unica realtà rimasta in piedi dopo un secolo. Chiedendosi soltanto, fuori da «recriminazioni e puntualizzazioni storiografiche», se la socialdemocrazia «potrà reggere alla prova della vittoria planetaria del capitale finanziario».

Togliatti inaugura quella che d'ora in poi sarà l'unica strategia del Pci, l'alleanza delle forze popolari, la ricerca dell'intesa con il Psi e poi con la Dc che dà vita al primo governo nazionale post-bellico fino all'improvvisa, e inaspettata per i comunisti, rottura del 1947 dettata dalla determinazione capitalistica degli Stati uniti e dei loro alleati atlantici. Nonostante lo shock e la sconfitta elettorale del 1948, Togliatti lavorò a fondo per convincere, «pedagogicamente», la base militante del cambio di passo strategico. Che, però, avrà ancora bisogno di una prospettiva, per quanto lontana e confusa, di palingenesi della società.

Si tratta di una necessità che rende improponibile nel dibattito interno la proposta di riunificazione con il Partito socialista che viene avanzata a inizio degli anni Sessanta da Giorgio Amendola, praticamente inascoltato, e che impedisce - anche se incide soprattutto il vincolo internazionale e l'ipoteca sovietica - di aprire già allora la questione di un centrosinistra integrale allargato anche al Pci e non al solo Psi.

Il dibattito su questa opzione resta sotto traccia, ma esiste e condiziona le successive scelte comuniste fino al Rubicone attraversato da Enrico Berlinguer nel 1973 con la proposta di «compromesso storico». Riemerge l'alleanza tra le forze popolari, anche se ora, a inizio anni Settanta, quel partito popolare ha ormai governato per trent'anni ed è diventato agli occhi delle masse una forza di Stato, repressiva e inquietante (piano Solo, piazza Fontana, corruzione e depredazione dello Stato, ecc.).

Dopo la guerra, insomma, il Pci sembra avere solo una carta da giocare e la giocherà fino alla sconfitta del «governo delle astensioni» che nasce nel 1976 con la «non sfiducia» del Pci al governo Andreotti. Una scelta che attraversa il caso Moro chiamato in causa troppo spesso impropriamente per spiegare le ragioni di un fallimento strategico, derivante invece dall'impossibilità di far nascere quello che sembrava possibile nel vivo della Seconda guerra mondiale - i primi passi verso l'alleanza antifascista e senza la pregiudiziale antimonarchica si fecero addirittura nel vertice di Tolosa del 1941 - nel corso degli anni Settanta quando la dominante è il sommovimento sociale. Una riproposizione in contraddizione non più solo con la «natura» del Partito, comunque già un po' cambiato rispetto al dopoguerra, ma con la realtà italiana scaturita dagli anni Sessanta e dal binomio '68-'69.

La proposta berlingueriana sfuma dopo la sconfitta elettorale del 1979, ma anche per la chiusura del quadro politico, e la scelta dell'«alternativa» che caratterizza gli ultimi anni della segreteria di Berlinguer è solo una mossa difensiva. Che infatti non apre nessuna nuova prospettiva, non ha interlocutori, appare ormai fuori tempo massimo. Dopo Berlinguer, di fatto, c'è solo la resa, lo scioglimento e la scelta di passare al liberal-progressismo di Achille Occhetto Scegliendo, di fatto, di diventare una variante, democratica, del capitalismo dal quale, nel corso della sua storia, il Pci, sia pure con posture riformiste, si era mantenuto come «altro».

Resta l'unicità di quanto avvenuto. E quell'unicità può aiutarci a comprendere che le storie politiche vanno analizzate e studiate, ma non sono mai ripetibili. Ribadire oggi la necessità della scelta rivoluzionaria nel 1921 non significa stabilire che sempre e ovunque una simile opzione non possa essere al fianco di un'opzione riformista in un unico partito che abbia a cuore gli interessi del proletariato, o di come oggi vogliamo chiamare la maggioranza di coloro che per vivere devono lavorare. Nel caso italiano, purtroppo, il problema nemmeno si pone visto che non esiste, di fatto, né una formazione a vocazione rivoluzionaria né una riformista.

Rimane il punto dell'alternativa tra rottura e compromesso. Lo stato del capitalismo internazionale, non solo italiano o europeo, pone con forza la necessità di un'alternativa di società e di sistema. La drammaticità delle condizioni in cui versa il pianeta, l'incapacità del capitalismo di venire a capo, in termini socialmente efficaci, di limiti strutturali come il predominio della sfera finanziaria, la debolezza mortale che i sistemi occidentali hanno esposto alla pandemia da Coronavirus, cui si sono arresi interi sistemi sanitari o scolastici, dicono che una riforma dell'esistente sarebbe comunque meglio che assistere alla scomposizione di interi settori sociali.

Ma è possibile trovare un compromesso con questa realtà? Per un tempo limitato forse sì, anche se questa condizione si è data finora solo per trent'anni nei 150-170 anni di storia del capitalismo. Solo tra il 1945 e il 1973 si è avuto quel «compromesso keynesiano» che costituisce per molti oggi una nostalgia a cui tendere. La storia, anche del Pci, ha però dimostrato che alla lunga il compromesso non regge e che una delle forze in campo è destinata a prevalere. Non ha retto il compromesso con la Dc e il Psi del 1945-47 e poi nemmeno quello tra il Psi e la Dc che ha dato vita al centrosinistra organico nel 1962-63. Tanto meno ha retto il «compromesso storico». Più in generale non hanno retto i compromessi sociali che hanno alimentato democrazie più robuste di quella italiana, come quella tedesca, e nemmeno l'opzione socialdemocratica iberica ha saputo sanare ferite sociali profonde. Da tutte le esperienze di compromesso sono venute fuori, prima o poi, rigurgiti reazionari ancora più pericolosi, come dimostra il trumpismo statunitense successivo alla fase obamiana.

La lucida previsione di quel manipolo di rivoluzionari che nel corso dei primissimi anni Venti del Novecento si buttò nell'avventura di un partito comunista, quello sì realmente nuovo, aveva la capacità di profetizzare questi esiti postumi. Vedeva nel cuore delle contraddizioni di fondo del capitalismo, la scelta necessaria: quella di un suo oltrepassamento dettato da una cesura più o meno tratteggiata.

Nello scontro epocale contro il riformismo di allora, purtroppo, quei comunisti, e quell'Internazionale, persero per strada un'intuizione del marxismo di cui si farà carico, dopo la gelata staliniana, soltanto Lev Trotzky nel suo Programma di transizione. L'intuizione riguarda la capacità di

Superare la contraddizione tra la maturità delle condizioni oggettive della rivoluzione e l'immaturità del proletariato e della sua avanguardia. Bisogna aiutare le masse a trovare, nel processo della loro lotta quotidiana, il ponte tra le rivendicazioni attuali e il programma della rivoluzione socialista. Questo ponte deve consistere in un sistema di rivendicazioni transitorie che partano dalle condizioni attuali e dal livello di coscienza attuale di larghi strati della classe operaia e portino invariabilmente a una sola conclusione: la conquista del potere da parte del proletariato (Lev Trotzky, Il programma di Transizione, 1938).

Di transitorietà, come ci ricorda Canfora, scrive anche Togliatti quando deve spiegare ai suoi militanti che il «partito nuovo» non significa abbandonare l'aspirazione originaria: «Transitorio e provvisorio sono concetti radicalmente diversi [...] il transitorio si colloca in una situazione in sviluppo e si regge sull'aderenza a questa situazione da un lato e sulla tendenza e capacità di trasformarla muovendo in una direzione determinata». Questo concetto, conclude Togliatti, costituisce la sostanza di una «politica comunista».

Delineando uno spazio conteso tra il «non più» e il «non ancora», il transitorio qui descritto può servire certamente come tranquillante per una base spiazzata dalle strategie compromissorie che il vertice del Pci delineava nel dopoguerra. Un transitorio infinito, si potrebbe aggiungere, in cui l'esito rivoluzionario non giungerà mai e «l'aderenza a questa situazione» diventa, come poi è successo per il Pci, un eterno presente. Eppure il concetto di transitorietà resta fecondo per collegare le condizioni effettive e l'ambizione rivoluzionaria, per evitare il settarismo di fronte a progetti di riforma giudicati insufficienti, ma utili per lasciare aperta una prospettiva.

La necessaria opposizione al capitalismo e la capacità di unire il massimo delle forze non può non tenere in conto questo schema logico e politico. È il modo migliore per rendere omaggio a quei rivoluzionari del 1921.

Salvatore Cannavò

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