Abbondanza frugale (prima parte)
Il fallimento dell'obiettivo della felicità per tutti
promessa dalla società della crescita obbliga a interrogarsi sul contenuto
della promessa stessa. La ridefinizione della felicità come "abbondanza frugale
in una società solidale": questa è la rottura proposta dal progetto della
decrescita. Una rottura che presuppone che si esca dal circolo infernale della
creazione illimitata di bisogni e di prodotti, come pure dalla frustrazione
crescente che questa genera, e contemporaneamente che si compensi attraverso la
convivialità l'egoismo derivante da un individualismo ridotto a una
massificazione uniformizzante. L'abbondanza consumistica pretendeva di
realizzare la felicità attraverso il soddisfacimento dei desideri di tutti, ma
questo soddisfacimento dipendeva a sua volta da redditi distribuiti in modo
estremamente ineguale e sempre insufficienti a permettere all'immensa
maggioranza di coprire le spese essenziali. Inoltre, il buon funzionamento del
sistema si basa sull'insoddisfazione generalizzata. Come sanno bene i
pubblicitari, le persone felici sono cattivi consumatori. Ribaltando
completamente questa logica, la società della decrescita si propone di fare la
felicità dell'umanità attraverso l'autolimitazione, per realizzare l'abbondanza
frugale. Certe forze politiche vedono la soluzione della crisi economica e
finanziaria attuale della società dei consumi soltanto nell'austerità, altre
soltanto in un problematico rilancio dell'economia. La prima ci porta in un
vicolo cieco abbinato a una grande miseria per una parte rilevante della
popolazione, mentre il secondo sarebbe una calamità per il pianeta. Cosa ancora
peggiore è un programma che combina il rilancio economico e l'austerità. In
effetti, lo slogan "sia rilancio, sia austerità" significa il rilancio per il
capitale e l'austerità per tutti gli altri. In nome del rilancio, peraltro
largamente illusorio, degli investimenti e, totalmente falso, dell'occupazione,
si riducono o si sopprimono gli oneri sociali, la tassa professionale e
l'imposta sui profitti delle imprese. Si rinuncia a qualsiasi imposizione sui
profitti bancari e finanziari, mentre lo scudo fiscale permette ai più ricchi
di pagare sempre meno tasse. Contemporaneamente, l'austerità colpisce
pesantemente gli operai e le classi medie e inferiori, che soffrono di un
abbassamento dei redditi, della riduzione delle prestazioni sociali e
dell'aumento dell'età pensionistica. Per completare il quadro e preparare
attivamente la mitica ripresa, in nome del "risanamento" dei deficit di
bilancio vengono smantellati sistematicamente i servizi pubblici e si
privatizza a tutto gas quello che ancora non è stato privatizzato. Si assiste
addirittura a una strana e masochistica concorrenza nella corsa all'austerità.
Ma non si tratta di quell'austerità virtuosa sostenuta da Illich e che noi
preferiamo chiamare frugalità, bensì di un'austerità che priva non soltanto del
superfluo ma anche di una parte sempre più grande del necessario. Il tutto per
compiacere le agenzie di rating e i mercati internazionali finanziari con cui i
paesi indebitati hanno contratto i prestiti. Intanto alcune anime belle, come
l'economista americano Joseph Stiglitz, ripropongono le vecchie ricette
keynesiane del rilancio dei consumi e degli investimenti per far ripartire la
crescita. Ma questa terapia non è praticabile, perché il pianeta non può
sopportarla e perché, dato l'esaurimento delle risorse naturali (intese in
senso lato), già dagli anni settanta i costi della crescita (quando si
realizza) sono superiori ai benefici.
Serge Latouche (fine prima parte)