Artefici del proprio destino
I fautori del capitalismo spesso evidenziano che, a dispetto delle previsioni di chi lo critica, nel complesso il capitalismo, considerato da una prospettiva globale, non è in crisi ma progredisce più che mai . E come non essere d'accordo? Il capitalismo prospera in tutto il mondo ( più o meno), dalla Cina all'Africa, decisamente non è in crisi: in crisi sono le persone, impigliate in questo sviluppo esplosivo. Questa tensione tra una crescita nel complesso rapida, le crisi locali e la miseria fa parte del normale andamento del capitalismo: per mezzo di tali crisi esso si rinnova. Si prenda il caso della schiavitù. Se, da una parte, il capitalismo si autolegittima come il sistema economico che presuppone e incoraggia la libertà personale (come condizione necessaria agli scambi commerciali), dall'altra genera schiavitù, obbedendo a una dinamica intrinseca: nonostante la schiavitù si fosse quasi estinta verso la fine del Medio Evo, è riemersa nelle colonie agli albori dell'epoca moderna e si è protratta fino alla Guerra di Secessione americana. E si potrebbe azzardare l'ipotesi che oggi, nella nuova epoca del capitalismo globale, si stia affermando una nuova era della schiavitù. Sebbene non esista più un'apposita categoria giuridica per gli schiavi, la schiavitù acquisisce una molteplicità di forme nuove: quella dei milioni di lavoratori migranti nella penisola araba (Emirati Arabi Uniti, Qatar ecc.), privi dei diritti civili e delle libertà fondamentali, soggetti a una mobilità limitata; il controllo totale su milioni di operai sfruttati nelle fabbriche asiatiche, spesso organizzate intenzionalmente come capi di concentramento; l'uso massiccio della manodopera per lo sfruttamento delle risorse naturali in molti stati dell'Africa centrale (Congo ecc.). Quello che è a tutti gli effetti un nuovo apartheid, l'esplosione sistematica di molteplici forme diverse di schiavitù contemporanea, non è il frutto di un caso deplorevole ma una necessità strutturale del capitalismo globale dei nostri giorni. Un altro caso spudorato di regresso intrinseco al progresso capitalista è rappresentato dalla crescita esponenziale del lavoro precario. Esso priva i lavoratori di quei diritti che, fino a poco tempo fa, erano dati per scontati in qualunque paese che vantasse uno stato sociale: l'assicurazione sanitaria e la pensione ricadono sulle spalle dei lavoratori precari; non esistono ferie retribuite; il futuro si fa sempre più incerto. Il lavoro precario genera, inoltre, un antagonismo all'interno delle classi lavoratrici, tra quanti godono di un impiego a tempo indeterminato e chi invece resta precario (i sindacati tendono a privilegiare i lavoratori a tempo indeterminato; per i lavoratori precari è molto difficile persino organizzarsi in un sindacato o creare altre forme di autoorganizzazione collettiva). Ci si sarebbe aspettati che, con l'incrementarsi dello sfruttamento, anche la resistenza dei lavoratori si sarebbe rafforzata, ma anche essa è resa più difficile da motivi di ordine ideologico: il lavoro precario viene presentato (ed entro un certo limite è anche vissuto in questo modo) come una nuova forma di libertà. Non sono più solo un ingranaggio di un'impresa complessa ma l'imprenditore di me stesso, gestisco liberamente la mia occupazione, sono libero di scegliere nuove possibilità, di esplorare la poliedricità del mio potenziale creativo, di stabilire quali sono le mie priorità... E' evidente oggi l'analogia tra il lavoratore precario e il tipico consumatore di programmi tv, anche in relazione ai quali si è chiamati, per così dire, a esercitare la libertà di scelta. Sempre di più, ciascuno di noi diventa il curatore di un proprio palinsesto televisivo: ci abboniamo ai nostri programmi preferiti (HBO, Netflix), selezioniamo film on demand ecc., secondo i nostri desideri, esposti a una libertà di scelta per cui non abbiamo una preparazione adeguata perché mancano indicazioni, criteri e così ci ritroviamo abbandonati all'arbitrarietà del nostro cattivo gusto. Il ruolo dei modelli e dei canoni è essenziale: persino quando aspiriamo a violarli, a ribaltarli continuano a offrirci le coordinate essenziali per orientarci nel panorama confuso delle scelte senza fine. Bombardati di continuo dalla "libertà di scelta" che ci viene imposta, costretti a prendere decisioni che nemmeno saremmo qualificati a prendere in maniera adeguata (e riguardo alle quali non abbiamo le informazioni necessarie) , sperimentiamo in misura crescente la nostra libertà per quello che di fatto è: un peso che ci priva della reale possibilità di cambiamento.
Slavoj Zizek (2017)