Cosa cambia (e cosa non cambia) con Biden

12.01.2021

Molti danno per scontato che con il mandato che Joe Biden assumerà il 20 gennaio si assisterà a un ritorno alla politica di Barack Obama, di cui è stato vicepresidente in un governo tipicamente di centrosinistra. Lo stesso Biden infatti, nell'estate 2019 aveva rassicurato una sala di ricchi donatori convenuti in un albergo newyorkese, dicendo che in caso di una sua elezione «nulla cambierà fondamentalmente». Del resto, quale altro può essere lo scopo di una campagna politica che si impegna a «far guarire l'anima della nazione» (to heal the soul of the nation), se non quello di tornare alle condizioni di salute precedenti?

Tuttavia non è più possibile tornare alla normalità obamiana. L'elezione nel 2016 di Trump ha segnalato dei cambiamenti profondi nella politica americana. Lo sviluppo di un movimento anti-monopolista, un ridotto interesse verso il commercio globalizzato e un crescente scetticismo nei confronti dell'austerity si sono diffusi in modo bipartisan. Anche se le scelte fatte finora da Biden per i membri del suo gabinetto e dello staff della Casa Bianca chiamano in causa - per la maggior parte - personaggi riciclati dai governi di Obama, il presidente eletto si deve adeguare alla nuova realtà politica. E dalle sue scelte possiamo intuire qualche indicazione sul carattere del suo futuro governo.

Le priorità di Biden appaiono due. La prima, quella più evidente, è abbattere le barriere simboliche. L'esempio migliore è la scelta di Kamala Harris come vicepresidente, prima donna e prima donna nera (e anche indiana) a occupare questa posizione nella storia degli Stati uniti. E in generale sono tanti i «primi»: primo segretario della difesa nero (Lloyd Austin), prima segretaria al tesoro donna (Janet Yellen), primo membro del gabinetto apertamente gay (Pete Buttiegieg, segretario dei trasporti), primo membro del gabinetto nativo americano (Deb Haaland, segretaria agli interni). Biden non sembra quasi in grado di far altro che nominare «primi» e i media lo premiano con un profluvio di lodi. In un Partito democratico sempre più preoccupato dall'identity politics queste nomine rappresentano facili vittorie.

La seconda priorità del presidente eletto è quella di nominare persone a lui note e fedeli. Ciò spiega facilmente le altre scelte: Tony Blinken come segretario di stato (vice segretario di stato con Obama ed ex-consulente di Biden), Ron Klain come capo di gabinetto della Casa Bianca (capo di gabinetto di Biden durante i governi Obama), Tom Vilsack come segretario all'agricoltura (lo stesso incarico nel governo Obama), Neera Tanden come direttrice dell'ufficio per la gestione e il bilancio (ex-consigliera di Obama e Hillary Clinton), John Kerry come delegato presidenziale per il clima (segretario di stato durante il governo Obama). È cosa nota, infatti, che Biden apprezzi soprattutto la fedeltà e le vecchie amicizie.

Assente da queste priorità è qualunque ideologia politica. In una modalità tipica per il centrosinistra americano, la squadra di Biden è culturalmente progressista, ma ideologicamente incoerente. Tutte cose che non fanno presagire grandi cambiamenti politici. A giudicare dalle scelte già fatte, possiamo aspettarci una politica interna che continuerà a privilegiare il settore finanziario (più precisamente il settore «Fire» che racchiude insieme finanza, assicurazioni e immobiliare), così come l'industria digitale, con qualche riforma economica-sociale minore, mentre in politica estera è prevedibile un atteggiamento militare aggressivo, accompagnato dal ripristino di stretti rapporti con i paesi della Nato e - in ambito mediorientale - il mantenimento delle relazioni con Israele e i paesi arabi del golfo.

Esaminando in dettaglio le nomine, emerge comunque qualche nota positiva. La nomina di Deb Haaland a segretaria agli interni potrebbe risultare significativa, non solo perché ha già espresso una visione politica vicina al punto di vista delle comunità native americane di cui fa parte. Il segretario agli interni gestisce il demanio nazionale, le coste, e le risorse naturali e può avere un impatto rilevante sulla politica statunitense, ponendo forti barriere alle attività svolte sui terreni nazionali dalle società di petrolio e gas (invece di collaborarci come hanno fatto i segretari agli interni del governo Trump).

Paradossalmente, un barlume di luce - seppur debole - si scorge poi in qualcosa che manca nel governo di Biden rispetto a quello di Obama: i banchieri. Le scelte di Biden mettono in rilievo la smisurata influenza del mondo finanziario che permeava il governo Obama. Per fare qualche esempio, il segretario al tesoro dal 2009 al 2013, Timothy Geithner, dal 2014 gestisce una società di private equity a New York. Il segretario al tesoro del secondo mandato di Obama (2013-2017), Jack Lew, invece, era stato direttore operativo del colosso bancario Citigroup tra il 2006 e il 2008. Non solo, Lew aveva beneficiato di generosi fondi di salvataggio da parte della squadra economico-finanziaria di Bush-Obama nell'autunno 2008 (a differenza dell'attuale fase di transizione, il presidente eletto può essere coinvolto negli affari governativi nel periodo precedente la sua inaugurazione). Sempre Lew gestisce dal 2017 un'altra società di private equity newyorkese. Infine, il direttore dell'ufficio per la gestione e il bilancio dal 2009 al 2010, Peter Orszag, nel 2011 entrò nella gestione di Citigroup dopo aver lasciato l'incarico di governo.

Le cose vanno ancora peggio se si considerano i profili dei consulenti economici di alto livello di Obama - Michael Froman, Larry Summers, Jason Furman, David Lipton, Diana Farrell - che dagli anni Novanta in poi si muovono indistintamente tra lavori redditizi per banche, aziende di consulenza finanziaria, think tank e settore pubblico. Anche il capo di gabinetto di Obama ed ex-sindaco di Chicago, Rahm Emmanuel, si è dilettato nel mondo della finanza nell'intermezzo tra i governi Clinton e Obama nei primi anni 2000 e attualmente ricopre un incarico di gestione in una banca di investimento newyorkese. In realtà, nella composizione della squadra economica di Obama trova spiegazione la gran parte degli scandalosi salvataggi finanziari realizzati dal suo governo.

In confronto a Obama, in questo campo Biden appare meno peggio. Ma si può trattare di una caratteristica quasi casuale, giustificata solo dalla mancanza di un numero così alto di consulenti finanziari vicini al suo orecchio. L'attuale presidente eletto non sembra infatti minimamente allarmato dal patologico dominio bancario sull'economia americana. Per Biden, che continua a vantarsi per l'uscita dalla crisi del 2008, bolle speculative che portano a potenziali crisi economiche non rientrano nello schema di pericoli che minacciano il paese. Le voci di Wall Street comunque non mancheranno di farsi sentire nel suo governo: nella primavera 2020 la campagna di Biden ha assunto Summers come consulente economico esterno e Biden stesso continua a considerare Emmanuel per una posizione nel suo governo. Inoltre, la scelta di Brian Deese - un ex consulente del governo Obama che dal 2017 è uno dei massimi dirigenti di BlackRock (gestore di asset più grande del mondo) - quale principale consulente economico o la rivelazione che l'incaricata a segretario al tesoro, Janet Yellen, si è fatta pagare 4 milioni di dollari in parcelle per discorsi tenuti presso varie società finanziarie dal 2018 in poi, rassicurano poco. Il mondo bancario è stato più generoso con la campagna di Biden rispetto a quella di Trump in termini di sostegno economico, anche se i rappresentanti delle banche all'interno del governo Biden sembrano avere meno peso rispetto al governo Obama.

Al di là del mondo finanziario, però, nell'ultimo decennio sono emersi altri importanti giocatori nel campo del potere economico. Si tratta delle grandi società tecnologiche, le cosiddette Big Tech, che da qualche anno dominano il mercato digitale e ora anche quello azionario (lo stesso scenario si sta riproducendo in Europa, come conferma la nuova normativa per il controllo di queste società varata dalla Commissione europea a dicembre). Un articolo pubblicato da Cnbc dettaglia il modo in cui queste aziende hanno già infiltrato il governo Biden:

La squadra di transizione di Biden ha già riempito i consigli delle agenzie federali (federal review agencies) più con dirigenti provenienti da società tecnologiche che con persone critiche nei loro confronti. Si sono uniti allo staff della transizione parecchi funzionari di aziende Big Tech, che sono risultate tra i principali donatori alla campagna... Ad esempio, l'ex direttrice di Facebook Jessica Hertz è l'avvocato principale alla squadra di transizione di Biden. Austin Lin, un ex program manager di Facebook, è stata nominata membro di un consiglio di agenzia per l'Ufficio Esecutivo del Presidente. Erskine Bowles, un ex-membro del consiglio di amministrazione di Facebook, sta offrendo consulenze alla squadra della transizione insieme a Jeff Zients, un altro ex-membro di consiglio di Facebook, che da poco è stato selezionato come funzionario principale sull'emergenza Covid-19.

Non è solo Facebook a fare mosse del genere. Anche Google e Amazon hanno piazzato dei propri alleati nel nuovo governo. Come afferma lo stesso articolo, quest'influenza penetra i livelli superiori della politica in modo da non farsi notare troppo. Le società Big Tech capiscono che ottenere un posto nel governo potrebbe generare pubblicità negativa e, per questo motivo, cercano piuttosto di infiltrare il governo a livello dello staff e tramite consulenze. Un esempio recente riguarda Amazon, che ha appena assunto il lobbista Jeff Ricchetti, fratello di Steve Ricchetti, consigliere personale di Biden. Questi alleati di Big Tech potranno essere capaci di arrestare il nuovo movimento anti-monopolio che sta crescendo negli Usa e potenzialmente anche in Europa? È certamente una possibilità.

Infine, a parte per alcuni elementi di base, il campo forse meno prevedibile di tutti è quello della politica estera. Qui Biden ha già affermato di voler subito revocare le più provocatorie politiche trumpiane, sottoscrivendo l'accordo di Parigi per il clima, tentando di ristabilire l'accordo sul nucleare con l'Iran, rientrando nell'Oms e rafforzando i legami con la Nato. Oltre a questo, però, è difficile azzardare ipotesi. Come riportato in un articolo del Los Angeles Times da Doyle McManus, «anche le sensibilità all'interno del Partito democratico si sono evolute. I Democratici non solo sono più scettici sugli accordi di libero scambio, sono anche meno generosi verso la Cina e più allergici agli impegni militari». Disponendo di poche dichiarazioni dettagliate da parte del presidente eletto su questo tema, difficilmente possiamo indovinare quali cambiamenti vedremo nei confronti della Cina, ma possiamo invece notare che, per Biden, il rapporto degli Usa con l'Arabia Saudita dovrà essere «rivalutato».

La nomina a segretario di stato di Tony Blinken - un alleato e consulente stretto di Biden da quasi due decenni - è un elemento da osservare attentamente. Blinken è sempre stato un interventista e ha appoggiato non solo la guerra in Iraq, ma anche il coinvolgimento militare degli Usa in Siria e nella Libia. Biden non ha forti convinzioni in politica estera e Blinken, in qualità di segretario di stato - una tra le posizioni più potenti nel gabinetto - avrà su di lui molta influenza e autonomia decisionale. Difficile quindi aspettarsi grandi cambiamenti nella politica militare del paese. Un elemento preoccupante che riguarda Blinken, oltre alle sue tendenze da falco, è il lavoro che ha svolto dopo il suo mandato nel governo Obama. Nel 2017 ha fondato, con un gruppo di ex componenti del governo, un'oscura azienda di consulenza, chiamata WestExec, specializzata in tecnologie militari avanzate. Chi è abituato a soddisfare le esigenze di questo settore vi farà sempre attenzione.

Per quanto riguarda l'Europa, Blinken si spenderà senza alcun dubbio per un riavvicinamento. È infatti noto per essere fortemente europeista e francofilo. Forse i profondi mutamenti dei venti politici gli impediranno di negoziare un accordo di libero scambio con gli alleati europei, ma la sua passione per la Nato garantisce una forza rinnovata nei rapporti transatlantici.

Joe Biden non ha mai avuto un progetto politico chiaro pur avendo fatto politica tutta la vita. Eletto senatore nel 1972 a 29 anni, nel 2020 è finalmente riuscito a farsi eleggere presidente del paese al terzo tentativo (i primi due furono nel 1988 e nel 2008). La chiave del suo successo è stata la sua esperienza nel governo Obama e la sua promessa di porre fine all'incubo trumpiano per tornare allo status quo antecedente. Questo approccio non contiene nuove idee economiche o politiche, mira prevalentemente a fornire l'immagine del buon governo. Questo è il motivo per cui il presidente eletto enfatizza instancabilmente il suo obiettivo di cooperare con i Repubblicani. In una recente conversazione privata Biden ha affermato che farà un uso delicato del potere esecutivo e che le aspettative dei progressisti su questo fronte sono troppo alte. A dicembre ha persino dichiarato che non metterà mai in imbarazzo i Repubblicani, un atteggiamento che fa dubitare della sua capacità di sfidare la corruzione e l'avidità della destra. Mentre i Repubblicani continuano a mentire, rubare e poi puntare il dito contro i Democratici per giocare il ruolo delle vittime, Biden preferisce dare priorità al decoro presidenziale.

Non sarà un altro Obama. Obama era il beniamino dei media, mentre Biden è meno eloquente ed è sempre stato più bravo a coltivare relazioni personali. Si dice addirittura che non sia mai stato del tutto accettato nella cerchia di Obama. Certamente lascerà la sua traccia nella storia americana, ma cercherà di farlo soprattutto con delle scelte simboliche e con un comportamento presidenziale «appropriato».

Ali Karamustafa

Gianni Vannini - Blog politico
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