Da che parte stai?
La "guerra al terrore" ha creato un clima che ha permesso ai governi di tutto il mondo di far approvare una serie di leggi antiterrorismo per la sicurezza nazionale nelle quali la definizione di "terrorista" è così vaga, ampia e lasca da potersi applicare praticamente a chiunque. In vari paesi, nascoste dietro il nuovo linguaggio della "guerra al terrore", sono state ripresentate con rinnovato entusiasmo vecchie divisioni manichee. In Palestina la popolazione dovrebbe scegliere tra Hamas e l'occupazione israeliana. In India tra il nazionalismo indù e il terrorismo islamico, tra le razzie delle multinazionali e la guerriglia maoista. Nel Kashmir tra l'occupazione militare e le cellule militanti islamiche. Nello Sri Lanka tra uno spietato stato singalese e le sentenze di morte delle Tigri Tamil. I popoli non dovrebbero essere costretti a compiere nessuna di queste scelte. Eppure sono sempre meno coloro che hanno il lusso di poter dire: "Non stiamo né con voi né con i "terroristi". Chi quel privilegio lo possiede ancora, e lo esercita, corre il rischio di neutralizzarsi con quello che può facilmente trasformarsi in un esercizio di pura compassione, o nelle pallide banalità dei discorsi sui diritti umani, in cui l'equidistanza morale toglie l'urgenza politica e concreta da queste battaglie che sono politiche, urgenti e molto concrete. Anche chi ripudia la violenza sa bene che non si può mettere sullo stesso piano la violenza di un esercito d'occupazione con quella di chi gli oppone resistenza, oppure la violenza dei diseredati con quella degli approfittatori, la violenza del capitalismo delle multinazionali con quella delle comunità che lo combattono. Mentre gli attacchi contro la gente comune da parte dei governi, degli eserciti invasori e delle rapaci multinazionali si fanno sempre più feroci lo stesso vale per la resistenza. Man mano che la resistenza non violenta viene inglobata, corrotta o resa inefficace comincia a venir sostituita dalla militanza e dalla lotta armata. In breve tempo le persone nel nome delle quali vengono intraprese queste lotte stanno diventando ostaggi dei metodi disperati a cui alla fine i movimenti violenti fanno inevitabilmente ricorso. Anche se la propaganda sulla "guerra al terrore" vorrebbe farci fare di ogni erba un fascio è ovvio che non tutte le lotte armate sono uguali. Alcune sono di massa e, almeno nominalmente, rivoluzionarie. Altre no. Alcune sono apertamente sessiste e decisamente retrograde. Nel complesso, però, non esiste qualcosa che si possa definire una lotta armata "gentile" o compassionevole. Ci sono sempre spargimenti di sangue. C'è sempre una gran puzza. Capita così a chi combatte. Quando quelli di noi che si trovano a disagio di fronte ai massacri dicono: "Non stiamo né con voi né con i terroristi" si corre il rischio di sostenere il mantenimento dello status quo. D'altra parte, se rinunciamo a quella posizione, rischiamo di diventare sostenitori acritici della sottomissione delle donne, delle decapitazioni pubbliche e degli attentatori suicidi, o di chi promuove una visione del mondo ristretta, da incubo. Forse è più importante che mai che noi critichiamo quelli di cui sosteniamo le battaglie, la cui rabbia comprendiamo ma di cui rifiutiamo i metodi e le idee. Quando facciamo così, però, dobbiamo tenere bene a mente che in zona di guerra ogni paragrafo, ogni frase che pronunciamo verrà saccheggiata e sfruttata per la propaganda dalle due fazioni rivali. Con conseguenze che possono rivelarsi spiacevoli. Però il silenzio non è una scelta possibile. E' importantissimo che chi di noi non è stato risucchiato dalla marea montante trovi il modo di continuare a dire quel che va detto. (Fare quel che va fatto, ovviamente, è decisamente un altro paio di maniche). E' importantissimo riaprire gli spazi che si stanno chiudendo, cercare di insufflare ossigeno dove ce n'è sempre meno, continuare a parlare, insistere nel dire che ci sono altri modi in cui immaginare il mondo. Perché, quando finisce la possibilità di fare questi discorsi, la violenza ci ingloberà tutti con la sua visione soffocante e ristretta.
Arundhati Roy