Ideologia e non (prima parte)
L'era contemporanea si proclama costantemente come
postideologica, ma questa negazione dell'ideologia non fa che fornire la prova
definitiva che siamo più che mai immersi nell'ideologia. L'ideologia è sempre
un campo di battaglia, per esempio la battaglia per l'appropriazione delle
tradizioni del passato. Una delle più chiare indicazioni della nostra
situazione è l'appropriazione liberale di Martin Luther King, un'operazione
ideologica esemplare. Henry Louis Taylor ha notato di recente: "Tutti coloro
che sanno qualcosa di Martin Luther King, persino i bambini piccoli, sono in
grado di dire che il suo momento più famoso fu il discorso <I have a dream >. Nessuno è in grado di
andare oltre quest'unica frase. Tutti sappiamo che questo tizio aveva un sogno
ma non sappiamo che sogno era." King aveva percorso una lunga strada dall'acclamazione
delle masse in occasione della marcia su Washington del 1963, quando era stato
introdotto come "il leader morale della nostra nazione". Rivendicando degli
obiettivi che andavano oltre la semplice fine della segregazione, aveva perso
molto consenso pubblico e veniva considerato sempre di più come un paria. Come
dice Harvard Sitkoff, " si interessò alle questioni della povertà e
del militarismo perché le considerava vitali per rendere l'uguaglianza qualcosa
di reale e non solo una fratellanza razziale". Per metterla nei termini di
Alain Badiou, King seguiva " l'assioma dell'uguaglianza" ben al di là della
singola questione della segregazione razziale: al momento della sua morte stava
facendo una campagna su rivendicazioni contro la povertà e la guerra. Aveva
parlato contro la guerra del Vietnam e, quando fu ucciso a Memphis nell'aprile
del 1968, era là per sostenere i lavoratori delle pulizie in sciopero. Come ha
affermato Melissa Harris-Lacewell, "seguire King significava seguire la strada
dell'impopolarità non quella della popolarità". Inoltre, tutti gli elementi che
oggi identifichiamo con la libertà e la democrazia liberale (sindacati,
suffragio universale, istruzione gratuita, libertà di stampa ecc.) sono stati
ottenuti attraverso una lunga e difficile lotta da parte delle classi
subalterne nel diciottesimo e nel diciannovesimo secolo. In altre parole, essi
furono tutto tranne che conseguenze "naturali" dei rapporti capitalistici. Si
pensi alla lista di rivendicazioni con cui si conclude il Manifesto Comunista:
la maggior parte di esse, ad eccezione della abolizione della proprietà privata
dei mezzi di produzione, è oggi ampiamente accettata nelle democrazie "borghesi"
ma solo come risultato di lotte popolari. Vale la pena sottolineare un altro
fatto spesso ignorato: oggi l'uguaglianza tra bianchi e neri è celebrata come
parte del "sogno americano" e trattata come un assioma etico-politico di per sé
evidente ma, negli anni Venti e Trenta , i comunisti statunitensi erano la sola
forza politica a sostenere una completa uguaglianza razziale. Coloro che
affermano un legame naturale tra capitalismo e democrazia stanno barando con i
fatti nello stesso modo in cui la Chiesa cattolica bara quando si presenta come
l'avvocato "naturale" dei diritti umani contro il totalitarismo: come se non
avesse accettato la democrazia solo alla fine del diciannovesimo secolo, e
persino allora a denti stretti, come un compromesso disperato, rendendo chiaro
che preferiva la monarchia e che stava facendo una riluttante concessione ai
nuovi tempi.
Slavoj Zizek (2009)
(fine prima parte)