Ideologia e non (ultima parte)
A dimostrazione della sua pervasività l'ideologia appare
come il suo opposto, come "non ideologia", come il nucleo della nostra identità
umana celato sotto tutte le etichette ideologiche. Per questo l'eccezionale
romanzo "Le benevole" di Jonathan Littel è così traumatico, specie per i
tedeschi: esso fornisce un racconto in prima persona, immaginario, dell'Olocausto
dalla prospettiva di un partecipante tedesco, l'SS Maximilian Aue. Il problema
è il seguente: come rendere il modo in cui i carnefici nazisti hanno vissuto e
simbolizzato la loro posizione senza suscitare simpatia o persino
giustificarli? Ciò che Littel ci offre, per esprimermi in modo un po' privo di
tatto, è una versione immaginaria nazista di Primo Levi. Come tale, egli ha da
insegnarci una lezione freudiana chiave: bisogna rifiutare l'idea che il modo
giusto per lottare contro la demonizzazione dell'Altro è soggettivarlo,
ascoltarne la storia, comprendere come percepisce la situazione . Possiamo
immaginare di invitare un brutale criminale nazista a raccontarci la sua
storia? I dettagli della sua vita personale "redimono" gli orrori derivati
dalla sua autorità, lo rendono "più umano"? Per citare uno dei miei esempi
favoriti, Reinhard Heydrich, l'architetto dell'Olocausto, egli amava suonare
gli ultimi quartetti per archi di Beethoven con i suoi amici durante le sue
serate di svago. La nostra esperienza più elementare della soggettività è
quella della "ricchezza della mia vita interiore": questo è quello che "sono
realmente" in contrasto con le determinazioni simboliche e le responsabilità
che assumo nella vita pubblica . La prima lezione della psicoanalisi in questo
caso è che la "ricchezza della vita interiore" è fondamentalmente un falso: è
uno schermo, una falsa distanza la cui funzione, per così dire, è salvare la
mia apparenza, rendere palpabile la mia vera identità socio-simbolica. Uno dei
modi per praticare la critica dell'ideologia è quindi inventare delle strategie
per smascherare questa ipocrisia della "vita interiore" e delle sue emozioni "sincere".
L'esperienza che abbiamo delle nostre vite dall'interno, la storia che
raccontiamo su di noi per giustificare quello che stiamo facendo è quindi una
menzogna: la verità risiede piuttosto fuori di noi, in quello che facciamo. In
questo consiste la difficile lezione del libro di Littel: in esso incontriamo
qualcuno di cui ascoltiamo pienamente la storia ma che deve nondimeno rimanere
nostro nemico. Ciò che è veramente intollerabile nei carnefici nazisti non sono
tanto le cose terribili che hanno fatto ma il modo in cui sono rimasti "umani,
troppo umani" mentre le facevano. Le storie che raccontiamo a noi stessi
riguardo a noi stessi servono a offuscare la vera dimensione etica delle nostre
azioni. La stessa strategia della '"umanizzazione" ideologica (nel senso della saggezza
proverbiale per cui "errare è umano") è un elemento chiave della
rappresentazione ideologica delle FAI (Forze Armate Israeliane). I media
israeliani amano soffermarsi sulle imperfezioni e i traumi psichici dei soldati
israeliani, presentandoli non come perfette macchine militari né come eroi
superumani ma come persone comuni che, imprigionate nei traumi della Storia e
della guerra, a volte compiono degli errori e smarriscono la strada. Per
esempio, quando nel gennaio del 2003 le FAI demolirono la casa di famiglia di
un sospettato di terrorismo, lo fecero con accentuata cortesia, aiutando
persino la famiglia a spostare i suoi mobili all'esterno prima di distruggere
la casa con un bulldozer. La stampa israeliana ha riportato un altro incidente
simile: mentre un soldato israeliano stava perquisendo una casa palestinese in
cerca di sospetti la madre di famiglia chiamò sua figlia per nome per
tranquillizzarla e il soldato apprese con sorpresa che il nome della ragazza
terrorizzata era lo steso della propria figlia; in uno slancio sentimentale
tirò fuori il suo portafoglio e mostrò la foto della figlia alla madre
palestinese, E' facile discernere la falsità di un tale gesto di empatia: l'idea
che, a dispetto delle differenze politiche, in fondo siamo tutti esseri umani,
con gli stessi amori e le stesse paure neutralizza l'impatto dell'attività in
cui era impegnato il soldato. Per questo, la sola risposta adeguata da parte
della madre sarebbe dovuta essere: "Se sei veramente un essere umano come me perché
stai facendo quello che stai facendo ora?"
Slavoj Zizek (2009)
(fine)