Il futuro rubato
Il 2006 è stato l'anno in cui il precariato divenne per la
prima volta un argomento di moda nei talk show e nei comizi; ce li ricordiamo
ancora i politici nei salottini televisivi a pontificare che non bisognava
definire "precarietà" quel deflusso dei diritti legati al lavoro. A sentir
loro, allora come oggi, dovevamo chiamarla "flessibilità", parola ambigua che a
noi richiamava l'immagine di cose leggere e forti, il legno dell'arco e le
chiome piegate dei giunchi al vento, ma non riuscivamo proprio a declinarla
sulle nostre schiene e i nostri progetti di vita, che avremmo voluto assai meno
oscillanti delle foglie dei giunchi. In quegli anni faceva i primi passi la
famigerata legge 30 sul lavoro, presentata dall'allora senatore della Lega
Roberto Maroni, ma intitolata furbescamente postuma al giuslavorista Marco
Biagi, forse nella cinica speranza che il suo cadavere incolpevole la
proteggesse dalle critiche che meritava. Ci dissero, allora, che quella riforma
del lavoro era bella e moderna, ce la chiedeva l'Europa e dovevamo esser
contenti: le nuove generazioni avevano finalmente l'opportunità di vivere per
anni motivate dalla prospettiva di non sapere se tre mesi dopo il loro
contratto sarebbe stato rinnovato. Nessuno con un minimo di buon senso credette
alla favola dell'aumento delle retribuzioni in cambio della perdita dei
diritti. Infatti qualche anno dopo arrivò la crisi e gli stipendi scesero alla
stessa velocità con cui gli ultimi diritti rimasti volarono via. C'è voluto un
altro decennio perché un'istituzione come l'Inps, calcoli alla mano, si
rendesse conto che il disastro che allora in pochi annunciavano come possibile
era già diventato probabile per la maggior parte di noi. Alla pensione, mitico
traguardo a cui i "baby boomers" hanno aspirato con serena sicurezza, migliaia
di uomini e donne nati negli anni Settanta non sarebbero mai arrivati, o perché
l'età pensionabile si sarebbe innalzata così tanto da ridurre enormemente le
possibilità di arrivarci vivi, o perché il groviera contributivo generato dalle
disconnesse carriere professionali di quella generazione non sarebbe stato
sufficiente a garantire la rendita per la vecchiaia. Quella generazione oggi ha
oltre quarant'anni. Ci rientrano i figli dei giustamente tutelati lavoratori
del dopoguerra, ma quei figli hanno oggi un futuro a termine, non più lungo dei
loro rinnovi contrattuali, e un presente fatto di stipendi a forfait, incarichi
a progetto senza il progetto, collaborazioni permanentemente saltuarie, finte
partite IVA e stage eterni mai retribuiti. Quegli uomini e quelle donne, che la
cattiva coscienza delle classe politica italiana ama definire "generazione
perduta" per potersene meglio dimenticare, perduti in realtà non lo sono per
niente, perché sono qui, sono vivi, ci camminano accanto e saranno sempre di
più: siamo noi o lo saremo, ciascuno coi suoi sogni non realizzati, le scelte
che con più sicurezze lavorative si sarebbero potute fare, i figli mai generati
per la paura di non avere abbastanza per crescerli e la pensione dei genitori come
estremo paracadute nell'incertezza. In quella generazione depredata è l'Italia
che si è perduta, sacrificando milioni di intelligenze, di idee e di
potenzialità all'avidità di una parte del mondo industriale, quello che conta
davvero, fatto di manager convinti che la vita delle persone non sia una
risorsa, ma un costo da ridurre fino a metterlo in concorrenza col più basso
salario al mondo. Non stupisce che dopo dieci anni di questa scientifica
progettazione il 2015 sia stato l'anno in cui, per la prima volta da decenni,
il numero dei giovani che hanno lasciato il paese per inseguire un sogno
migliore è stato superiore a quello dei migranti economici che in Italia sono
venuti nella speranza di realizzare i propri.
Michela Murgia