Il futuro rubato

24.07.2020

Il 2006 è stato l'anno in cui il precariato divenne per la prima volta un argomento di moda nei talk show e nei comizi; ce li ricordiamo ancora i politici nei salottini televisivi a pontificare che non bisognava definire "precarietà" quel deflusso dei diritti legati al lavoro. A sentir loro, allora come oggi, dovevamo chiamarla "flessibilità", parola ambigua che a noi richiamava l'immagine di cose leggere e forti, il legno dell'arco e le chiome piegate dei giunchi al vento, ma non riuscivamo proprio a declinarla sulle nostre schiene e i nostri progetti di vita, che avremmo voluto assai meno oscillanti delle foglie dei giunchi. In quegli anni faceva i primi passi la famigerata legge 30 sul lavoro, presentata dall'allora senatore della Lega Roberto Maroni, ma intitolata furbescamente postuma al giuslavorista Marco Biagi, forse nella cinica speranza che il suo cadavere incolpevole la proteggesse dalle critiche che meritava. Ci dissero, allora, che quella riforma del lavoro era bella e moderna, ce la chiedeva l'Europa e dovevamo esser contenti: le nuove generazioni avevano finalmente l'opportunità di vivere per anni motivate dalla prospettiva di non sapere se tre mesi dopo il loro contratto sarebbe stato rinnovato. Nessuno con un minimo di buon senso credette alla favola dell'aumento delle retribuzioni in cambio della perdita dei diritti. Infatti qualche anno dopo arrivò la crisi e gli stipendi scesero alla stessa velocità con cui gli ultimi diritti rimasti volarono via. C'è voluto un altro decennio perché un'istituzione come l'Inps, calcoli alla mano, si rendesse conto che il disastro che allora in pochi annunciavano come possibile era già diventato probabile per la maggior parte di noi. Alla pensione, mitico traguardo a cui i "baby boomers" hanno aspirato con serena sicurezza, migliaia di uomini e donne nati negli anni Settanta non sarebbero mai arrivati, o perché l'età pensionabile si sarebbe innalzata così tanto da ridurre enormemente le possibilità di arrivarci vivi, o perché il groviera contributivo generato dalle disconnesse carriere professionali di quella generazione non sarebbe stato sufficiente a garantire la rendita per la vecchiaia. Quella generazione oggi ha oltre quarant'anni. Ci rientrano i figli dei giustamente tutelati lavoratori del dopoguerra, ma quei figli hanno oggi un futuro a termine, non più lungo dei loro rinnovi contrattuali, e un presente fatto di stipendi a forfait, incarichi a progetto senza il progetto, collaborazioni permanentemente saltuarie, finte partite IVA e stage eterni mai retribuiti. Quegli uomini e quelle donne, che la cattiva coscienza delle classe politica italiana ama definire "generazione perduta" per potersene meglio dimenticare, perduti in realtà non lo sono per niente, perché sono qui, sono vivi, ci camminano accanto e saranno sempre di più: siamo noi o lo saremo, ciascuno coi suoi sogni non realizzati, le scelte che con più sicurezze lavorative si sarebbero potute fare, i figli mai generati per la paura di non avere abbastanza per crescerli e la pensione dei genitori come estremo paracadute nell'incertezza. In quella generazione depredata è l'Italia che si è perduta, sacrificando milioni di intelligenze, di idee e di potenzialità all'avidità di una parte del mondo industriale, quello che conta davvero, fatto di manager convinti che la vita delle persone non sia una risorsa, ma un costo da ridurre fino a metterlo in concorrenza col più basso salario al mondo. Non stupisce che dopo dieci anni di questa scientifica progettazione il 2015 sia stato l'anno in cui, per la prima volta da decenni, il numero dei giovani che hanno lasciato il paese per inseguire un sogno migliore è stato superiore a quello dei migranti economici che in Italia sono venuti nella speranza di realizzare i propri.

                                                                                                                                   Michela Murgia

Gianni Vannini - Blog politico
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