La maggioranza ha sempre ragione?
Nella
storia della politica radicale la violenza è di solito associata alla
cosiddetta eredità giacobina e, per questo motivo, viene rifiutata come
qualcosa che deve essere abbandonato se vogliamo veramente ricominciare da
zero. Perfino alcuni postmarxisti contemporanei si sentono imbarazzati
dall'eredità del Terrore di stato
centralizzato da cui vogliono distanziare lo stesso Marx, proponendo un Marx
autenticamente "liberale" il cui pensiero sarebbe stato in seguito oscurato da
Lenin. E' stato Lenin, così dicono, a reintrodurre l'eredità giacobina
falsificando in questo modo lo spirito libertario di Marx. Ma è vera questa
storia? Guardiamo meglio a come i giacobini rifiutarono il ricorso a un voto di
maggioranza in nome di quelli che parlano per una Verità eterna. Come poterono
i giacobini, sostenitori dell'unità e della lotta contro le fazioni,
giustificare un tale rifiuto? "Tutta la difficoltà sta in come dobbiamo
distinguere tra la voce della verità, anche se è minoritaria, e la voce faziosa
che cerca solo di dividere artificialmente per nascondere la verità". La
risposta di Robespierre, dunque, è che la verità è irriducibile ai numeri (al
conteggio); può essere trovata anche in solitudine: chi proclama una verità che
ha vissuto non deve essere trattato come un fazioso ma come una persona
sensibile e coraggiosa. Rivolgendosi all'Assemblea Nazionale il 28 dicembre
1792 Robespierre affermò che, nel testimoniare la verità, qualsiasi invocazione
a una maggioranza o minoranza non è che un mezzo per ridurre "al silenzio
coloro che vengono designati col termine minoranza" e ancora "la minoranza ha
ovunque un diritto eterno: quello di far sentire la voce della verità". E'
assai significativo che Robespierre facesse questa affermazione nell'Assemblea
a proposito del processo al re. I girondini avevano proposto una soluzione
"democratica": in un caso così difficile era necessario fare "appello al
popolo", convocare assemblee locali in tutta la Francia e chiedere loro di
votare su cosa bisognasse fare con il re; solo un tale gesto avrebbe dato
legittimità al processo. La risposta di Robespierre fu che un tale appello al
popolo avrebbe in realtà cancellato la volontà sovrana del popolo che,
attraverso la Rivoluzione, si era già pronunciata e aveva cambiato la natura
stessa dello stato francese, portando all'esistenza della Repubblica. Ciò che i
girondini insinuano in realtà, egli afferma, è che l'insurrezione
rivoluzionaria è "solo l'azione di una parte del popolo, perfino di una
minoranza, e che si deve chiedere a una sorta di maggioranza silenziosa di
pronunciarsi". In breve, la Rivoluzione ha già deciso la faccenda, il fatto
stesso della Rivoluzione significa che il re è colpevole e quindi mettere ai
voti la sua colpevolezza significherebbe mettere in dubbio la Rivoluzione
stessa. Quando abbiamo a che fare con "verità forti" affermarle implica
necessariamente violenza simbolica. Quando la patria è in pericolo, disse
Robespierre, dobbiamo dire senza timore che "la nazione è tradita: questa
verità è ora nota a tutti i francesi".
"Legislatori" aggiunse "il percolo è imminente, il regno della verità
deve cominciare: abbiamo sufficiente coraggio per dirvelo, abbiate sufficiente
coraggio per ascoltarlo". In una tale situazione non ci può essere spazio per
chi assume una terza posizione neutrale. Nel suo discorso in celebrazione dei
morti del 10 agosto 1792 l'abbè Gregoire dichiarò: "ci sono persone che sono
talmente buone da essere inutili, e in una rivoluzione che intraprende la lotta
per la libertà contro il dispotismo un uomo neutrale è un pervertito che, senza
alcun dubbio, attende di vedere come si risolve la battaglia per decidere da
che parte stare". Prima di bollare queste frasi di "totalitarismo" ricordiamoci
di un momento più recente in cui la "patrie" francese era ancora in pericolo,
nel 1940, quando nientemeno che il generale De Gaulle, nel suo celebre discorso
radiofonico di Londra, annunciò al popolo francese la "verità forte": la
Francia è sconfitta ma la guerra non è finita; la guerra continua contro i
collaborazionisti di Petain. Vale la pena ricordare le esatte condizioni di
questa dichiarazione: perfino Jacques Duclos, secondo in comando del Partito
Comunista Francese, ammise in una conversazione privata che, se si fossero
tenute libere elezioni in quel momento, il maresciallo Petain avrebbe vinto con
il novanta per cento dei voti. Quando De Gaulle, nel suo storico discorso,
rifiutò di arrendersi e si impegnò in una resistenza continua sostenne che solo
lui, e non il regime di Vichy, poteva parlare a nome della vera Francia (cioè a
nome della Francia in quanto tale, non solo a nome della maggioranza dei
francesi!). Ciò che affermò De Gaulle è profondamente vero anche se,
"democraticamente parlando", non solo mancava di legittimità ma era chiaramente
contrario all'opinione
della
maggioranza del popolo francese. Questa posizione di una minoranza che
rappresenta il Tutto è rilevante più che mai nella nostra epoca postpolitica in
cui regna la pluralità delle opinioni: in tali condizioni la Verità universale
è per definizione una posizione minoritaria. Come fa notare Sophie Wahnich, in
una democrazia corrotta "la libertà di stampa equivale al diritto di non dire
nulla (in modo politicamente relativista) invece che all'esigente e a volte
persino mortale dovere etico della verità". Ciò che fonda una verità è
l'esperienza di sofferenza e coraggio, a volte in solitudine, non il numero o
la forza della maggioranza. Questo non significa ovviamente che ci siano
criteri infallibili per la verità: l'asserzione della Verità comporta una sorta
di scommessa, una decisione rischiosa. La via di una Verità deve essere
scavata, talvolta anche forzata, e chi dice la verità non è di norma capito
subito. E' il pieno riconoscimento di questa dimensione di rischio e scommessa,
dell'assenza di qualsiasi garanzia esterna che distingue un autentico impegno
di verità da qualsiasi forma di totalitarismo o fondamentalismo
Slavoj Zizek (2010).