La maggioranza ha sempre ragione?

01.06.2020

Nella storia della politica radicale la violenza è di solito associata alla cosiddetta eredità giacobina e, per questo motivo, viene rifiutata come qualcosa che deve essere abbandonato se vogliamo veramente ricominciare da zero. Perfino alcuni postmarxisti contemporanei si sentono imbarazzati dall'eredità del Terrore di stato centralizzato da cui vogliono distanziare lo stesso Marx, proponendo un Marx autenticamente "liberale" il cui pensiero sarebbe stato in seguito oscurato da Lenin. E' stato Lenin, così dicono, a reintrodurre l'eredità giacobina falsificando in questo modo lo spirito libertario di Marx. Ma è vera questa storia? Guardiamo meglio a come i giacobini rifiutarono il ricorso a un voto di maggioranza in nome di quelli che parlano per una Verità eterna. Come poterono i giacobini, sostenitori dell'unità e della lotta contro le fazioni, giustificare un tale rifiuto? "Tutta la difficoltà sta in come dobbiamo distinguere tra la voce della verità, anche se è minoritaria, e la voce faziosa che cerca solo di dividere artificialmente per nascondere la verità". La risposta di Robespierre, dunque, è che la verità è irriducibile ai numeri (al conteggio); può essere trovata anche in solitudine: chi proclama una verità che ha vissuto non deve essere trattato come un fazioso ma come una persona sensibile e coraggiosa. Rivolgendosi all'Assemblea Nazionale il 28 dicembre 1792 Robespierre affermò che, nel testimoniare la verità, qualsiasi invocazione a una maggioranza o minoranza non è che un mezzo per ridurre "al silenzio coloro che vengono designati col termine minoranza" e ancora "la minoranza ha ovunque un diritto eterno: quello di far sentire la voce della verità". E' assai significativo che Robespierre facesse questa affermazione nell'Assemblea a proposito del processo al re. I girondini avevano proposto una soluzione "democratica": in un caso così difficile era necessario fare "appello al popolo", convocare assemblee locali in tutta la Francia e chiedere loro di votare su cosa bisognasse fare con il re; solo un tale gesto avrebbe dato legittimità al processo. La risposta di Robespierre fu che un tale appello al popolo avrebbe in realtà cancellato la volontà sovrana del popolo che, attraverso la Rivoluzione, si era già pronunciata e aveva cambiato la natura stessa dello stato francese, portando all'esistenza della Repubblica. Ciò che i girondini insinuano in realtà, egli afferma, è che l'insurrezione rivoluzionaria è "solo l'azione di una parte del popolo, perfino di una minoranza, e che si deve chiedere a una sorta di maggioranza silenziosa di pronunciarsi". In breve, la Rivoluzione ha già deciso la faccenda, il fatto stesso della Rivoluzione significa che il re è colpevole e quindi mettere ai voti la sua colpevolezza significherebbe mettere in dubbio la Rivoluzione stessa. Quando abbiamo a che fare con "verità forti" affermarle implica necessariamente violenza simbolica. Quando la patria è in pericolo, disse Robespierre, dobbiamo dire senza timore che "la nazione è tradita: questa verità è ora nota a tutti i francesi". "Legislatori" aggiunse "il percolo è imminente, il regno della verità deve cominciare: abbiamo sufficiente coraggio per dirvelo, abbiate sufficiente coraggio per ascoltarlo". In una tale situazione non ci può essere spazio per chi assume una terza posizione neutrale. Nel suo discorso in celebrazione dei morti del 10 agosto 1792 l'abbè Gregoire dichiarò: "ci sono persone che sono talmente buone da essere inutili, e in una rivoluzione che intraprende la lotta per la libertà contro il dispotismo un uomo neutrale è un pervertito che, senza alcun dubbio, attende di vedere come si risolve la battaglia per decidere da che parte stare". Prima di bollare queste frasi di "totalitarismo" ricordiamoci di un momento più recente in cui la "patrie" francese era ancora in pericolo, nel 1940, quando nientemeno che il generale De Gaulle, nel suo celebre discorso radiofonico di Londra, annunciò al popolo francese la "verità forte": la Francia è sconfitta ma la guerra non è finita; la guerra continua contro i collaborazionisti di Petain. Vale la pena ricordare le esatte condizioni di questa dichiarazione: perfino Jacques Duclos, secondo in comando del Partito Comunista Francese, ammise in una conversazione privata che, se si fossero tenute libere elezioni in quel momento, il maresciallo Petain avrebbe vinto con il novanta per cento dei voti. Quando De Gaulle, nel suo storico discorso, rifiutò di arrendersi e si impegnò in una resistenza continua sostenne che solo lui, e non il regime di Vichy, poteva parlare a nome della vera Francia (cioè a nome della Francia in quanto tale, non solo a nome della maggioranza dei francesi!). Ciò che affermò De Gaulle è profondamente vero anche se, "democraticamente parlando", non solo mancava di legittimità ma era chiaramente contrario all'opinione della maggioranza del popolo francese. Questa posizione di una minoranza che rappresenta il Tutto è rilevante più che mai nella nostra epoca postpolitica in cui regna la pluralità delle opinioni: in tali condizioni la Verità universale è per definizione una posizione minoritaria. Come fa notare Sophie Wahnich, in una democrazia corrotta "la libertà di stampa equivale al diritto di non dire nulla (in modo politicamente relativista) invece che all'esigente e a volte persino mortale dovere etico della verità". Ciò che fonda una verità è l'esperienza di sofferenza e coraggio, a volte in solitudine, non il numero o la forza della maggioranza. Questo non significa ovviamente che ci siano criteri infallibili per la verità: l'asserzione della Verità comporta una sorta di scommessa, una decisione rischiosa. La via di una Verità deve essere scavata, talvolta anche forzata, e chi dice la verità non è di norma capito subito. E' il pieno riconoscimento di questa dimensione di rischio e scommessa, dell'assenza di qualsiasi garanzia esterna che distingue un autentico impegno di verità da qualsiasi forma di totalitarismo o fondamentalismo

                                                                                                                Slavoj Zizek (2010).

Gianni Vannini - Blog politico
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