La pace, la paura, la guerra
«Il sentimento di sicurezza è profondamente alterato. Non è
necessariamente un male, dal momento che non può esserci sicurezza per
l'uomo su questa terra e il bisogno di sicurezza, al di là di un certo
limite, è un'illusione pericolosa che falsa tutto e rende le menti
ottuse, superficiali e scioccamente soddisfatte; lo si è ben visto nei
periodi di prosperità, e lo si vede ancora in quelle categorie sociali
che si credono oggi al sicuro. Ma la totale assenza di sicurezza,
soprattutto quando la catastrofe che si teme sembra eccedere le risorse
dell'intelligenza e del coraggio, non è meno nociva. Abbiamo visto in
passato le crisi economiche togliere ai giovani ogni speranza di poter
entrare pienamente nei ranghi della società e guadagnare di che vivere e
nutrire una famiglia. Si vede ora tutta una generazione di giovani
nello stesso vicolo cieco... I media moderni di comunicazione, la stampa,
la radio il cinema sono del resto abbastanza potenti per influire sullo
stato d'animo di tutto un popolo. Certo la vita continua a difendersi,
protetta dall'istinto e da una qualche forma d'incoscienza; e tuttavia
la paura che viene diffusa di grandi catastrofi collettive, attese
passivamente come un'alluvione o un terremoto, condiziona sempre più il
sentimento che ciascuno può avere del suo avvenire".
(Simone Weil, 1939)
«Un'atmosfera pesante, opaca e soffocante si è stabilita sul paese,
gli uomini sono depressi e scontenti e, tuttavia, sono disposti a subire
qualsiasi cosa senza protestare e senza stupirsene.
È la situazione caratteristica dei periodi di tirannia. Il generale
malcontento, che gli osservatori superficiali considerano come un indice
di fragilità del potere, significa in realtà esattamente il contrario.
Un malcontento sordo e diffuso è compatibile con una quasi illimitata
sottomissione per decine di anni; quando al sentimento della sciagura si
unisce, com'è oggi il caso, l'assenza di speranze, gli uomini
obbediscono finché un contraccolpo esterno non restituisca loro la
speranza».
Occorre prendere sul serio la tesi, più volte ripetuta dai governi,
secondo la quale l'umanità e ogni nazione si trovano attualmente in
stato di guerra. Va da sé che una simile tesi serve a legittimare lo
stato di eccezione con le sue drastiche limitazioni della libertà di
movimento e espressioni assurde come «coprifuoco», altrimenti
difficilmente giustificabili. Il legame che stringe i poteri di governo e
la guerra è, però, più intimo e consustanziale. Il fatto è che la
guerra è qualcosa di cui essi non posso in alcun modo fare durevolmente a
meno.
Nel suo romanzo Tolstoj contrappone la pace, in cui gli uomini seguono
più o meno liberamente i loro desideri, i loro sentimenti e i loro
pensieri e che gli appare come la sola realtà, all'astrazione e alla
menzogna della guerra, in cui tutto sembra trascinato da una inesorabile
necessità. E nel suo affresco nel palazzo pubblico di Siena, Lorenzetti
rappresenta una città in pace i cui abitanti si muovono liberamente
secondo le loro occupazioni e il loro piaceri, mentre in primo piano
delle ragazze danzano tenendosi per mano.Sebbene l'affresco sia intitolato tradizionalmente Il buon governo,
una simile condizione, tessuta com'è dai piccoli eventi quotidiani
della vita comune e dai desideri di ciascuno, è in realtà per il potere
alla lunga ingovernabile. Per quanto possa essere sottoposta a limiti e
controlli di ogni genere, essa tende infatti per sua natura a sfuggire
ai calcoli, alle pianificazioni e alle regole - o, almeno, questo è il
segreto timore del potere. Ciò si può anche esprimere dicendo che la
storia, senza la quale il potere non è in ultima analisi pensabile, è
strettamente solidale con la guerra, mentre la vita nella pace è per
definizione senza storia. Intitolando La Storia il suo romanzo,
in cui la vicenda di alcune semplici creature è contrapposta alle guerre
e ai catastrofici eventi che scandiscono le vicende pubbliche del
Novecento, Elsa Morante aveva in mente qualcosa del genere.
Per questo i poteri che vogliono governare il mondo devono prima o poi
ricorrere a una guerra, non importa se vera o accuratamente simulata. E
poiché nello stato di pace la vita degli uomini tende a uscire da ogni
dimensione storica, non stupisce che i governi non si stanchino oggi di
ricordare che la guerra al virus segna l'inizio di una nuova epoca
storica, nella quale nulla sarà come prima. E molti, fra coloro che si
bendano gli occhi per non vedere la situazione di non libertà in cui
sono caduti, la accettano proprio perché sono convinti, non senza una
punta di orgoglio, di stare entrando - dopo quasi settant'anni di vita
pacifica, cioè senza storia - in una nuova era.
Anche se, com'è fin
troppo evidente, si tratterà di un'epoca di servitù e di sacrifici, in
cui tutto ciò che rende la vita degna di essere vissuta dovrà subire
mortificazioni e restrizioni, essi vi si sottopongono di buon grado,
perché credono stolidamente di aver trovato in questo modo per la loro
vita quel senso che avevano senza avvedersene smarrito nella pace.
È possibile, tuttavia, che la guerra al virus, che sembrava un
dispositivo ideale, che i governi possono dosare e orientare secondo le
proprie esigenze ben più facilmente di una vera guerra, finisca, come
ogni guerra, col sfuggire loro di mano. E, forse, a quel punto, se non
sarà troppo tardi, gli uomini cercheranno nuovamente quella
ingovernabile pace che hanno così incautamente abbandonato.
Giorgio Agamben