La pace, la paura, la guerra

10.03.2021


«Il sentimento di sicurezza è profondamente alterato. Non è necessariamente un male, dal momento che non può esserci sicurezza per l'uomo su questa terra e il bisogno di sicurezza, al di là di un certo limite, è un'illusione pericolosa che falsa tutto e rende le menti ottuse, superficiali e scioccamente soddisfatte; lo si è ben visto nei periodi di prosperità, e lo si vede ancora in quelle categorie sociali che si credono oggi al sicuro. Ma la totale assenza di sicurezza, soprattutto quando la catastrofe che si teme sembra eccedere le risorse dell'intelligenza e del coraggio, non è meno nociva. Abbiamo visto in passato le crisi economiche togliere ai giovani ogni speranza di poter entrare pienamente nei ranghi della società e guadagnare di che vivere e nutrire una famiglia. Si vede ora tutta una generazione di giovani nello stesso vicolo cieco... I media moderni di comunicazione, la stampa, la radio il cinema sono del resto abbastanza potenti per influire sullo stato d'animo di tutto un popolo. Certo la vita continua a difendersi, protetta dall'istinto e da una qualche forma d'incoscienza; e tuttavia la paura che viene diffusa di grandi catastrofi collettive, attese passivamente come un'alluvione o un terremoto, condiziona sempre più il sentimento che ciascuno può avere del suo avvenire".
(Simone Weil, 1939)


«Un'atmosfera pesante, opaca e soffocante si è stabilita sul paese, gli uomini sono depressi e scontenti e, tuttavia, sono disposti a subire qualsiasi cosa senza protestare e senza stupirsene.
È la situazione caratteristica dei periodi di tirannia. Il generale malcontento, che gli osservatori superficiali considerano come un indice di fragilità del potere, significa in realtà esattamente il contrario. Un malcontento sordo e diffuso è compatibile con una quasi illimitata sottomissione per decine di anni; quando al sentimento della sciagura si unisce, com'è oggi il caso, l'assenza di speranze, gli uomini obbediscono finché un contraccolpo esterno non restituisca loro la speranza».

(Simone Weil, 1940)


Occorre prendere sul serio la tesi, più volte ripetuta dai governi, secondo la quale l'umanità e ogni nazione si trovano attualmente in stato di guerra. Va da sé che una simile tesi serve a legittimare lo stato di eccezione con le sue drastiche limitazioni della libertà di movimento e espressioni assurde come «coprifuoco», altrimenti difficilmente giustificabili. Il legame che stringe i poteri di governo e la guerra è, però, più intimo e consustanziale. Il fatto è che la guerra è qualcosa di cui essi non posso in alcun modo fare durevolmente a meno. Nel suo romanzo Tolstoj contrappone la pace, in cui gli uomini seguono più o meno liberamente i loro desideri, i loro sentimenti e i loro pensieri e che gli appare come la sola realtà, all'astrazione e alla menzogna della guerra, in cui tutto sembra trascinato da una inesorabile necessità. E nel suo affresco nel palazzo pubblico di Siena, Lorenzetti rappresenta una città in pace i cui abitanti si muovono liberamente secondo le loro occupazioni e il loro piaceri, mentre in primo piano delle ragazze danzano tenendosi per mano.Sebbene l'affresco sia intitolato tradizionalmente Il buon governo, una simile condizione, tessuta com'è dai piccoli eventi quotidiani della vita comune e dai desideri di ciascuno, è in realtà per il potere alla lunga ingovernabile. Per quanto possa essere sottoposta a limiti e controlli di ogni genere, essa tende infatti per sua natura a sfuggire ai calcoli, alle pianificazioni e alle regole - o, almeno, questo è il segreto timore del potere. Ciò si può anche esprimere dicendo che la storia, senza la quale il potere non è in ultima analisi pensabile, è strettamente solidale con la guerra, mentre la vita nella pace è per definizione senza storia. Intitolando La Storia il suo romanzo, in cui la vicenda di alcune semplici creature è contrapposta alle guerre e ai catastrofici eventi che scandiscono le vicende pubbliche del Novecento, Elsa Morante aveva in mente qualcosa del genere.

Per questo i poteri che vogliono governare il mondo devono prima o poi ricorrere a una guerra, non importa se vera o accuratamente simulata. E poiché nello stato di pace la vita degli uomini tende a uscire da ogni dimensione storica, non stupisce che i governi non si stanchino oggi di ricordare che la guerra al virus segna l'inizio di una nuova epoca storica, nella quale nulla sarà come prima. E molti, fra coloro che si bendano gli occhi per non vedere la situazione di non libertà in cui sono caduti, la accettano proprio perché sono convinti, non senza una punta di orgoglio, di stare entrando - dopo quasi settant'anni di vita pacifica, cioè senza storia - in una nuova era.
Anche se, com'è fin troppo evidente, si tratterà di un'epoca di servitù e di sacrifici, in cui tutto ciò che rende la vita degna di essere vissuta dovrà subire mortificazioni e restrizioni, essi vi si sottopongono di buon grado, perché credono stolidamente di aver trovato in questo modo per la loro vita quel senso che avevano senza avvedersene smarrito nella pace.
È possibile, tuttavia, che la guerra al virus, che sembrava un dispositivo ideale, che i governi possono dosare e orientare secondo le proprie esigenze ben più facilmente di una vera guerra, finisca, come ogni guerra, col sfuggire loro di mano. E, forse, a quel punto, se non sarà troppo tardi, gli uomini cercheranno nuovamente quella ingovernabile pace che hanno così incautamente abbandonato.


Giorgio Agamben





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