La rinuncia educativa

28.01.2021

Nel giro di un tempo abbastanza rapido (dieci, quindici anni), nella scuola italiana c'è stata una scomparsa particolarmente significativa, quella del bambino cosiddetto "difficile". Tutti gli insegnanti che hanno lavorato negli anni Settanta-Novanta avevano in classe un bambino "problematico": un alunno complicato da gestire, che provocava, che non seguiva alla lettera le attività proposte, che disturbava i compagni e che interveniva mentre l'insegnante stava spiegando, o tentava di farlo. Insomma, un soggetto un po' terribile, una specie di Lucignolo o Pinocchio. In un certo senso, ne parlava già De Amicis nel libro Cuore rappresentando, in maniera più o meno discutibile, la figura di Franti, cattivissimo, contrapposto al buon Garrone.

A un certo punto, questi monelli o discoli non sono più stati tollerati, non tanto sotto il profilo disciplinare, ma sotto un altro profilo, molto più inquietante: il loro comportamento "trasgressivo" non è più stato considerato un disturbo all'attività scolastica, ma un disturbo in quanto tale, ossia una malattia, altrimenti detta "disturbo neuropsichiatrico". Ribaltando quindi la percezione del bambino da "alunno che disturba" ad "alunno che ha un disturbo". La rinuncia educativa assume con questo esito una caratteristica molto compromettente per i bambini stessi. In questa deriva l'educazione smette di farsi carico della diversità infantile e la consegna alla psichiatria, ossia a chi si occupa di studiare e curare le malattie della mente. Nel 2017 ho scritto il libro "Non è colpa dei bambini", in cui, per la prima volta, ho denunciato, in maniera organica e documentata, il sistema che, nel corso degli ultimi anni in Italia, ha portato progressivamente agli attuali eccessi di diagnosi neuropsichiatriche rivolte alla popolazione infantile, preadolescenziale e adolescenziale.

I bambini risultano dimenticati nei loro bisogni profondi, nel momento in cui, semplicemente, li si considera come esseri umani disturbati da patologie che vanno riconosciute, certificate e trattate. Se il bambino non è più un bambino in quanto tale, ma un paziente, la sua natura e la sua energia infantile si spengono per adeguarsi a un eccesso di definizione diagnostica che, in età precoce, appare non solo un azzardo, ma anche un vero e proprio pericolo.

Il termine "neuropsichiatria" è molto preciso: si sta andando a cercare cosa non funziona nel cervello di un bambino, si stanno andando a cercare disturbi gravi. Spesso, però, magari è il caso di indagare prima nell'ambito dell'educazione. I genitori devono prendere in continuazione decisioni educative: andrebbero preparati, andrebbero date loro informazioni a riguardo, meglio se appena escono dai reparti di maternità. La mancanza di informazioni attendibili sta rovinando l'educazione dei nostri figli e la situazione viene risolta stabilendo che sono malati.

Scambiare l'immaturità infantile, che è fisiologica e imprescindibile, con un disturbo neuropsichiatrico è l'esito di un processo di progressiva dimenticanza delle necessità educative dei figli e degli alunni. In generale, i bambini interiorizzano la diagnosi. Un intervento di rafforzamento pedagogico dedicato ai genitori e alla famiglia sarebbe senz'altro più efficace rispetto al porre una specie di marchio sui bambini che finiscono per essere reputati "diversi" dai genitori stessi. Il rischio è che i bambini siano etichettati attribuendo loro una sorta di identità deficitaria, per cui gli alunni finiscono con l'identificarsi non tanto con le loro risorse quanto con la loro mancanza.

Un altro pericolo deriva dalla richiesta, già operativa in tanti territori italiani, degli screening per bambini anche all'ultimo anno della Scuola dell'Infanzia, o al primo-secondo anno della Scuola Primaria, alla ricerca di più o meno presunti disturbi neuropsichiatrici, neurocognitivi e, in generale, di eventuali ritardi dell'apprendimento. Qualcuno vorrebbe addirittura rendere obbligatori questi screening che rappresentano un'incombenza terribile sulla crescita dei bambini, un'etichettatura vera e propria. Creare ulteriore ansia a genitori già ansiosi è proprio quanto di meno auspicabile ci possa essere. Il dubbio che le certificazioni di bambini e ragazzi siano un settore attorno al quale ruotano significativi interessi economici si pone seriamente. La rinuncia educativa sembra essere una sorta di profonda combinazione fra la paura dei genitori rispetto alle proprie responsabilità e la stanchezza della scuola nel momento in cui si dovrebbe impegnare in favore di quegli alunni che proprio più di altri hanno bisogno di aiuto.

Per uscire dal pasticcio della certificazione e delle mortificazioni, da qualche anno propongo il concetto di "valutazione evolutiva": una modalità di verifica degli apprendimenti che consideri i punti di partenza dell'alunno registrando su quelle basi i cambiamenti avvenuti. Don Milani accusava la scuola di fare parti uguali fra disuguali e le sue parole sono quanto mai attuali. La scuola, mettendo in atto modalità di valutazione poco centrate sull'apprendimento e molto invece su un atteggiamento di ossessiva verifica del raggiungimento di determinate performance o della capacità di ripetere contenuti, rischia di accentuare il problema dell'eccesso diagnostico. Se, invece di valutare il percorso fatto, si stabiliscono standard da raggiungere, i bambini che non si adeguano o che non sono adeguati al livello di una determinata valutazione non potranno che finire etichettati. Inoltre, il sistema tutto italiano delle Prove Invalsi, che in terza media concorrono anche a definire la valutazione complessiva dello studente, affida alle crocette il giudizio sull'apprendimento raggiunto, in una logica della risposta giusta che ha poco a che fare con l'imparare qualcosa. Gli insegnanti che resistono a questa logica stanno facendo la cosa giusta per la crescita dei bambini, favorendo il loro sviluppo: devono tenere duro ed essere consapevoli del proprio orgoglio pedagogico e della propria professione. Per chi ha passione, quello dell'insegnante è un lavoro bellissimo e l'insegnamento lascia dei segni: quando i bambini trovano chi li valorizza sono salvi.

In questo quadro, quello che accade alla scuola può essere considerato a tutti gli effetti come il simbolo della rinuncia educativa da parte della società. E' sotto gli occhi di tutti il modo in cui, negli ultimi anni, l'istituzione scolastica si sia arresa a un profondo tecnicismo (come dicevo parlando delle Prove Invalsi e della loro retorica delle crocette nella casella giusta) e abbia ceduto alla mancanza di una professionalizzazione pedagogica degli insegnanti, all'incredibile svalutazione del loro ruolo, con stipendi inverosimili proprio nell'area della prima infanzia dove è più importante in realtà avere competenze. Tutti sintomi evidenti della catastrofe. La scuola è come un paziente cronico che non guarisce mai: spenta una malattia, ne contrae subito un'altra, in una sorta di agonia senza fine. Una situazione sempre più imbarazzante per il nostro Paese.

Sono assolutamente dell'idea che la pedagogia non sia quel corpo di concetti o teorie filosofiche, o addirittura spiritualistiche, che hanno abbondantemente insegnato, e che ancora insegnano in tante facoltà (da un paio di anni si parla di "dipartimenti"), ma che sia come l'architettura o la medicina: una disciplina di scienza pratica, che per essere efficace deve raccogliere altre discipline scientifiche, come possono essere l'antropologia, la sociologia o la psicologia, e anche, oggi più che mai, le neuroscienze, per riuscire a realizzare interventi concreti che abbiano un sufficiente valore scientifico. La scuola italiana si è allontanata da questo indispensabile connubio e oggi si trova orfana di un impianto scientifico. Come è potuto succedere? Come ci si è arrivati? Anzitutto ci sono state le chiusure delle facoltà di Pedagogia propriamente dette (che facevano capo al magistero), sostituite dai corsi di laurea in Scienze dell'educazione, che sono spesso carenti di un profilo pedagogico preciso, in cui anzi proprio l'indirizzo pedagogico viene diluito, quasi non lo si riconoscesse più. E poi c'è il tema della selezione dei dirigenti scolastici, che avviene ormai quasi esclusivamente su competenze di natura amministrativa, giuridica e gestionale, in poche parole manageriale. Il caso più eclatante è stato il Concorso per i nuovi dirigenti in Italia nel 2018 in cui la prima prova, quella selettiva, era basata su 100 domande a risposta multipla. Tra tutte queste domande, non ce n'era una di psicologia dell'età evolutiva, di didattica, di educazione o di cultura scolastica in senso stretto: riguardavano tutte l'ambito amministrativo-gestionale. Quindi, nella "corsa alla dirigenza", tendenzialmente, oggi sono favoriti quelli che al concorso giungono dall'ambiente tecnico di natura amministrativa. Viene chiesto loro non tanto di orientare pedagogicamente una scuola, ma di gestirla dal punto di vista puramente manageriale.

Finisce, così, che la scuola risulta colonizzata da tutta una serie di incombenze che, pur nella loro utilità, di pedagogico hanno pochissimo. Tra tutte cito i temi della sicurezza, che sono diventati centrali, oppure del bullismo, con le forze dell'ordine che vanno alle elementari a fare proclami contro i bulli, dimenticando che si tratta solo di bambini e scambiando spesso i comuni litigi col bullismo. Ci troviamo in una situazione di scomparsa di un linguaggio comune che la pedagogia assicurava, un linguaggio che garantiva alla vita infantile di avere il giusto rispetto della sua natura. E' come se la vita dei bambini non avesse un banco di lavoro scientifico che tutelasse la loro crescita e che tutto fosse lasciato a un fai-da-te generico che, nell'ambito scolastico, diventa davvero imbarazzante. Il fatto che la scuola italiana sia stata l'ultima a riaprire dopo l'epidemia di Covid-19 conferma il sospetto che la scuola abbia finito col consegnarsi alle scienze medico-sanitarie piuttosto che fare alleanze con la pedagogia. Per motivi di apprensione legate alla salute, le scuole italiane sono state le ultime ad aprire e questo la dice lunga su quale sia l'influenza che l'imprinting sanitario ha su questa istituzione nel nostro Paese, rispetto all'imprinting pedagogico. Ci sono Paesi che hanno mantenuto una maggior tradizione pedagogica: pensiamo alla Francia che, nelle scuole, ha la figura del "conseiller pedagogique", oppure all'Olanda, che ha profili i formazione universitaria molto precisi con una specifica ricaduta nelle scuole stesse. Senza dimenticare la Germania, che da sempre porta avanti il profilo professionale pedagogico. E' l'Italia che, in questo momento, appare fuori da quello che è uno schema comune, in una situazione di fragilità che viene subita dai bambini, dai ragazzi e anche dalle famiglie, che rischiano di diventare vittime di conoscenze superficiali, di risposte improvvisate, in poche parole di una rinuncia educativa che potrebbe compromettere soprattutto lo sviluppo dei più piccoli.


Daniele Novara

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