Lui è più intruso di me

31.05.2020

Nello scompartimento di un treno viaggiano comodamente due passeggeri che, dopo aver sistemato le valigie, hanno via via preso possesso dei sedili liberi lasciando giornali, cappotti, borse sparsi qui e là. D'un tratto, però, la porta si apre ed entrano due nuovi passeggeri. Il loro arrivo è per gli altri un fastidioso contrattempo, una seccatura che avevano sperato di evitare. Sono costretti a liberare i posti, a riordinare le loro cose. In breve, devono dividere lo spazio disponibile, uno spazio che, fino a pochi istanti prima, avevano considerato il loro territorio. Sebbene non si conoscano, i due passeggeri originari appaiono legati da un singolare senso di solidarietà. Di fronte ai nuovi venuti sono come un gruppo compatto. Hanno già il piglio dell'autoctono che rivendica a sé tutto lo spazio. La tensione è palpabile. I nuovi venuti bisbigliano sommessamente un paio di scuse; gli altri rispondono con gesti affettati e qualche occhiata di traverso. Sull'istinto del territorio prevalgono il codice ferroviario e le norme, scritte e non scritte, della civiltà. L'abitudine contribuisce a far accettare i due intrusi che restano, però, stigmatizzati. Senonchè, dopo un po', la porta si apre ed entrano due nuovi passeggeri. La situazione muta all'istante. Quelli che prima erano gli estranei, si sentono a loro volta comproprietari dello scompartimento insieme con i due passeggeri sul treno fin dall'inizio. Pur non avendo granchè in comune costituiscono tacitamente il clan degli autoctoni, decisi a difendere i privilegi acquisiti. Ancora una volta, con riluttanza, devono tuttavia stringersi e far posto. I due passeggeri un tempo estranei, promossi a neoautoctoni, non mostrano nessuna solidarietà verso i nuovi arrivati, obbligati ad affrontare quel medesimo rifiuto, quella stessa resistenza che loro hanno già provato e che dovrebbero perciò ricordare. Quel che accade nello scompartimento ferroviario (non un esperimento bensì l'esperienza vissuta da molti) è significativo sotto molti aspetti. Anzitutto viene alla luce che la prossimità non è uno stato ma "un'inquietudine". Stupisce la caparbia difesa del territorio appena occupato, difesa che si ripete grottescamente una volta, due volte. Come se lo scompartimento non fosse un soggiorno transitorio, un luogo di passaggio per raggiungerne un altro, destinato perciò al cambiamento e alla mobilità. Il che non impedisce quella silenziosa ostinazione con cui i passeggeri difendono la loro precaria dimora. Il paradosso raggiunge l'apice se si pensa che il passeggero è la negazione del sedentario. Eppure quelli che entrano nello scompartimento non solo trascurano la precarietà del territorio conquistato ma dimenticano rapidamente di essere stati a loro volta estranei per gli altri, presentandosi con orgoglio e boria come autoctoni. Emerge il forte senso di estraneità suscitato ogni volta dai nuovi passeggeri. Il che permette di considerare un aspetto che, soprattutto nel mondo globalizzato, non deve sfuggire: l'altro a cui si fa posto è un estraneo quasi sempre mai visto. Non occorre né conoscerlo, né apprezzarlo, né avere il benchè minimo legame per essere tenuti al vincolo dell'accoglienza. L'etica dello spazio prescinde dalla simpatia come dall'avversione, ignora le qualità o i difetti dell'altro. Ecco perché la prossimità con l'estraneo è al contempo paradossalmente così semplice e così impegnativa. Far posto a chi arriva vuol dire ritrarsi un po', mettersi leggermente da parte. Con il rischio, forse, della scomodità, del disagio. Tanto più là dove lo spazio manca, dove i membri di un gruppo sentono di essere stipati l'uno contro l'altro in un corpo pieno.

                                                                                                                  Donatella Di Cesare (2017)

Gianni Vannini - Blog politico
Tutti i diritti riservati 2020
Creato con Webnode
Crea il tuo sito web gratis! Questo sito è stato creato con Webnode. Crea il tuo sito gratuito oggi stesso! Inizia