Lui è più intruso di me
Nello scompartimento di un treno viaggiano comodamente due
passeggeri che, dopo aver sistemato le valigie, hanno via via preso possesso
dei sedili liberi lasciando giornali, cappotti, borse sparsi qui e là. D'un
tratto, però, la porta si apre ed entrano due nuovi passeggeri. Il loro arrivo
è per gli altri un fastidioso contrattempo, una seccatura che avevano sperato
di evitare. Sono costretti a liberare i posti, a riordinare le loro cose. In
breve, devono dividere lo spazio disponibile, uno spazio che, fino a pochi
istanti prima, avevano considerato il loro territorio. Sebbene non si
conoscano, i due passeggeri originari appaiono legati da un singolare senso di
solidarietà. Di fronte ai nuovi venuti sono come un gruppo compatto. Hanno già
il piglio dell'autoctono che rivendica a sé tutto lo spazio. La tensione è
palpabile. I nuovi venuti bisbigliano sommessamente un paio di scuse; gli altri
rispondono con gesti affettati e qualche occhiata di traverso. Sull'istinto del
territorio prevalgono il codice ferroviario e le norme, scritte e non scritte,
della civiltà. L'abitudine contribuisce a far accettare i due intrusi che
restano, però, stigmatizzati. Senonchè, dopo un po', la porta si apre ed
entrano due nuovi passeggeri. La situazione muta all'istante. Quelli che prima
erano gli estranei, si sentono a loro volta comproprietari dello scompartimento
insieme con i due passeggeri sul treno fin dall'inizio. Pur non avendo granchè
in comune costituiscono tacitamente il clan degli autoctoni, decisi a difendere
i privilegi acquisiti. Ancora una volta, con riluttanza, devono tuttavia
stringersi e far posto. I due passeggeri un tempo estranei, promossi a
neoautoctoni, non mostrano nessuna solidarietà verso i nuovi arrivati,
obbligati ad affrontare quel medesimo rifiuto, quella stessa resistenza che
loro hanno già provato e che dovrebbero perciò ricordare. Quel che accade nello
scompartimento ferroviario (non un esperimento bensì l'esperienza vissuta da
molti) è significativo sotto molti aspetti. Anzitutto viene alla luce che la
prossimità non è uno stato ma "un'inquietudine". Stupisce la caparbia difesa
del territorio appena occupato, difesa che si ripete grottescamente una volta,
due volte. Come se lo scompartimento non fosse un soggiorno transitorio, un
luogo di passaggio per raggiungerne un altro, destinato perciò al cambiamento e
alla mobilità. Il che non impedisce quella silenziosa ostinazione con cui i
passeggeri difendono la loro precaria dimora. Il paradosso raggiunge l'apice se
si pensa che il passeggero è la negazione del sedentario. Eppure quelli che
entrano nello scompartimento non solo trascurano la precarietà del territorio
conquistato ma dimenticano rapidamente di essere stati a loro volta estranei
per gli altri, presentandosi con orgoglio e boria come autoctoni. Emerge il
forte senso di estraneità suscitato ogni volta dai nuovi passeggeri. Il che
permette di considerare un aspetto che, soprattutto nel mondo globalizzato, non
deve sfuggire: l'altro a cui si fa posto è un estraneo quasi sempre mai visto.
Non occorre né conoscerlo, né apprezzarlo, né avere il benchè minimo legame per
essere tenuti al vincolo dell'accoglienza. L'etica dello spazio prescinde dalla
simpatia come dall'avversione, ignora le qualità o i difetti dell'altro. Ecco
perché la prossimità con l'estraneo è al contempo paradossalmente così semplice
e così impegnativa. Far posto a chi arriva vuol dire ritrarsi un po', mettersi
leggermente da parte. Con il rischio, forse, della scomodità, del disagio.
Tanto più là dove lo spazio manca, dove i membri di un gruppo sentono di essere
stipati l'uno contro l'altro in un corpo pieno.
Donatella Di Cesare (2017)