Per una giustizia globale (sesta parte)

25.05.2020

Negli anni '80 l'FMI cominciò a destabilizzare alcune delle economie del mondo in via di sviluppo che avevano avuto più successo. La Thailandia, la Corea del Sud, le Filippine e l'Indonesia, unitamente a gran parte degli altri paesi dell'Est asiatico, avevano cominciato a arricchirsi facendo esattamente quello che l'FMI e la Banca mondiale andavano dicendo loro di non fare. Avevano fatto massicci investimenti nell'istruzione e avevano attivamente aiutato alcune industrie. Avevano tardato a eliminare le misure protettive che consentivano alle loro aziende di crescere prima di trovarsi in competizione diretta con imprese straniere più grandi di loro. Avevano mantenuto il controllo sui flussi del capitale speculativo in entrata e uscita dalla loro economia. Tutti loro avevano sperimentato enormi tassi di crescita che, in nazioni quali la Corea del Sud e la Thailandia, avevano tolto dalla povertà la maggior parte della popolazione. L'FMI, in combutta col Tesoro degli Stati Uniti e coi banchieri di Wall Street, armato della minaccia di una profezia in grado di avverarsi da sola (avvisare i mercati finanziari che il destino dei paesi che non obbedivano al Fondo era segnato), ha praticamente costretto quelle nazioni a eliminare le restrizioni sui movimenti di capitale. " I paesi dell'Est asiatico" sostiene Stiglitz nel libro già citato " non avevano bisogno di altri capitali, data la loro elevata propensione al risparmio, ma ciò nonostante, alla fine degli anni '80 e nei primi anni '90, furono spinti a liberalizzare i movimenti di capitali. Io ritengo che questo sia stato il fattore che ha contribuito maggiormente alla crisi". Il risultato fu, come molti in quelle nazioni avevano predetto, che le monete liberalizzate cominciarono a essere prese d'assalto dagli speculatori finanziari. Nel 1997 questi si gettarono a capofitto sulla moneta più vulnerabile della regione, il baht thailandese. Guadagnarono denaro con una semplice operazione speculativa: immaginate di prendere in prestito da una banca thailandese una somma enorme in baht e poi convertitela in dollari. Se lo fate abbastanza in fretta e per una somma sufficientemente elevata il valore della moneta crolla. La conseguenza è che ora i baht valgono molto meno di prima: voi rimborsate il prestito con una parte dei vostri dollari e intascate il resto. Questi sono gli affari che concludono alcuni degli "investitori" più ammirati nel mondo occidentale. Hanno esercitato l'arte del peculato e l'hanno resa rispettabile cambiandone leggermente la grafia e le modalità ma ciò è stato reso possibile dall'insistenza dell'FMI sulla liberalizzazione del mercato dei capitali. Dopo aver distrutto la moneta thailandese l'FMI riversò nel paese miliardi di dollari sotto forma di prestiti con la scusa di "sostenere il tasso di cambio". Proprio come avevano predetto i suoi critici quasi tutta la somma erogata fu risucchiata all'esterno del paese, man mano che le banche occidentali ottenevano il rimborso dei prestiti e l'elite nazionale trasferiva in altri paesi i suoi investimenti. Il Fondo ha riproposto la stessa modalità in tutti i paesi asiatici le cui valute erano crollate sotto l'attacco degli speculatori, con grande vantaggio delle banche straniere. I prestiti lasciarono quelle nazioni ormai paralizzate in condizioni non certo migliori di prima ma con nuovi imponenti debiti. Mentre quei paesi vacillavano sull'orlo della catastrofe l'FMI continuò a prenderli a spintoni e li costrinse ad aumentare i tassi di interesse a livelli catastrofici: questa manovra, com'era prevedibile, mandò in bancarotta molte delle aziende indebitate e i fallimenti, a loro volta, cominciarono a demolire il sistema bancario. Le imprese straniere, per lo più con base negli States, arrivarono come squali e cominciarono a comprare le ditte fallite per una frazione del loro valore. Quasi volesse estendere il contagio economico il più velocemente possibile l'FMI, nel bel mezzo della recessione che aveva causato, costrinse i paesi che ne erano affetti a portare in pareggio i bilanci: questo si ridusse in un drastico taglio delle importazioni. I paesi dell'Est asiatico che sopravvissero al crollo furono quelli che si rifiutarono di prestare ascolto all'FMI. La Malaysia fece esattamente il contrario di quanto le era stato consigliato dal Fondo: mantenne i controlli sul flusso dei capitali. "Tali controlli" fa notare Stiglitz " le hanno consentito di recuperare più rapidamente" la recessione che aveva investito la regione "riducendo la crisi e lasciando in eredità al paese un debito molto più contenuto che non sarebbe risultato eccessivamente oneroso per la crescita futura. Oggi la Malaysia è messa molto meglio dei paesi che hanno seguito i consigli dell'FMI". Anche la Cina ha conservato i controlli sui capitali e la sua economia è cresciuta dell'8 per cento l'anno mentre la maggior parte delle economie della regione subivano una contrazione. Queste crisi e i disastri connessi, avviati o esacerbati dall'FMI, hanno lasciato decine di milioni di persone senza un'occupazione, trasformato cittadini benestanti in poveri e cittadini poveri in disperati, annullato gli investimenti per l'istruzione, la sanità e gli altri servizi pubblici, indebolito la capacità delle nazioni di provvedere al proprio fabbisogno alimentare e provocato sommosse in quasi tutti i paesi in cui il Fondo è intervenuto. I soli beneficiari dei suoi programmi sono state le banche e le imprese straniere, gli investitori dediti alla speculazione e alcuni membri delle elite nazionali. "Mentre l'FMI aveva fornito qualcosa come 23 miliardi di dollari ai governi dell'Est asiatico da utilizzare per sostenere il tasso di cambio e salvare i creditori" osserva Stiglitz "le somme infinitamente più piccole necessarie per aiutare i poveri non arrivavano". Il libro di Stiglitz presenta però due omissioni: non propone soluzioni attuabili ai problemi che documenta e si astiene rigorosamente dall'esaminare il ruolo del suo ex datore di lavoro, la Banca mondiale.

                                                                                                                           George Monbiot (2003)

                                                                                                                         (fine sesta parte)

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