Per una giustizia globale (terza parte)

22.05.2020

Dobbiamo democratizzare la globalizzazione. Ma in questo ambito ci imbattiamo in una grande divisione: tra riformisti e rivoluzionari. Mentre i rivoluzionari desiderano spazzar via le istituzioni globali e internazionali esistenti, i riformisti come George Soros, finanziere e autore del manifesto "Globalizzazione", preferiscono operare al loro interno. Soros propone alcune misure, quali l'utilizzo dei Diritti speciali di prelievo (le riserve finanziarie stanziate dall'FMI), per costituire un fondo di sussidi in favore delle nazioni più povere, la modifica degli interventi dell'FMI nell'economia del mondo povero e l'indipendenza del Direttore della Banca mondiale dai governi che lo hanno nominato. Si tratta, per quanto limitate, di misure progressiste. Ma, insiste Soros, questo è il massimo che possiamo aspettarci di ottenere: "Sarebbe irrealistico propugnare un totale cambiamento del sistema finanziario internazionale....Gli Stati Uniti non cederanno mai la loro posizione....Non vedo il motivo per proporre soluzioni più radicali quando le autorità non sono disposte a prendere in considerazione nemmeno quelle moderate che ho testè abbozzato". Al pari di molti atri, George Soros considera inattuabili e irrealistiche le alternative rivoluzionarie. Se dobbiamo limitare le nostre proposte a ciò che "le autorità sono disposte a prendere in considerazione", secondo me tanto vale lasciar perdere e consentire alle autorità di governare indisturbate il mondo. Persino le modeste riforme dell'FMI e della Banca mondiale che propone Soros sono ostacolate dagli stessi statuti che egli desidera rabberciare. Gli Stati Uniti, come abbiamo visto, possiedono diritto di veto su qualsiasi modifica allo statuto di tali organizzazioni. Non hanno, al momento, alcun incentivo ad abbandonare questo diritto e Soros non avanza proposte per una modifica degli incentivi. Tali enti sono, di conseguenza, intrinsecamente non riformabili. Il problema può anche essere esaminato da un altro punto di vista. Supponiamo che, avendo trovato qualche nuovo incentivo con cui modificare il comportamento degli Stati Uniti, si riesca a creare una pressione politica sufficiente a persuadere quella nazione a sospendere il diritto di veto e permettere di modificare lo statuto della Banca mondiale e dell'FMI. Avremmo così costretto la più grande superpotenza mondiale a rinunciare volontariamente alla propria posizione egemonica. Se questo fosse possibile qualsiasi cosa lo sarebbe. E, se tutto è possibile, perché mai dovremmo accontentarci di quel genere di riforme che, come ammette Soros, "sono fragili al cospetto dell'immensità dei problemi che dovrebbero risolvere"? Perché non abbracciare le proposte che ci darebbero i risultati desiderati al posto di quelle che "le autorità sarebbero disposte a prendere in considerazione"? Le misure "realistiche" di George Soros rivelano o un irrealismo disperato o una disperata mancanza di ambizione. Di certo, come lui stesso riconosce, non forniscono mezzi realistici per risolvere i problemi del mondo, anche qualora attuate. Sono disperate sotto due aspetti: sono mezzi inutili per ottenere il cambiamento e riflettono l'assenza di speranza. Considerazione altrettanto importante, le soluzioni di compromesso non suscitano l'entusiasmo popolare. Chi ha voglia di combattere e magari, in extremis, di sacrificare la propria vita per soluzioni che sono "fragili al cospetto dell'immensità dei problemi che dovrebbero risolvere"? Sappiamo che una riforma delle istituzioni illegittime probabilmente non farebbe altro che aumentare la loro credibilità e con essa l'autorevolezza dei loro poteri illegittimi. Non emergerà alcuna soluzione utile agli oppressi se a esigerla non saranno grandi quantità di persone, e non una volta sola ma costantemente, ed esse ovviamente non la esigeranno se ritengono che sia senza speranza. Se coloro che si battevano per la democratizzazione nazionale nell'Europa del diciannovesimo secolo avessero affrontato il loro compito con lo stesso realismo disperato dei riformisti che si battono oggi per la democratizzazione globale i loro attuali discendenti si ritroverebbero in una situazione in cui è concessa facoltà di voto solo a quelli che guadagnano, poniamo, 50.000 dollari l'anno o possiedono dieci ettari di terra al posto del suffragio universale. Ogni rivoluzione avrebbe potuto essere definita (e in un certo senso lo era) "irrealistica" solo poco tempo prima che scoppiasse. La Rivoluzione americana, la Rivoluzione francese, la concessione del diritto di voto alle donne, l'ascesa del comunismo, la caduta del comunismo, le aspirazioni dei movimenti a favore della decolonizzazione sono state schernite dai riformisti, convinti che il massimo cui si potesse aspirare fosse riparare alla bell'e meglio le istituzioni esistenti ed elemosinare qualche concessione di poco conto dai poteri dominanti. Se nel 1985 aveste annunciato che entro cinque o sei anni uomini e donne armati di mazze avrebbero buttato giù il muro di Berlino, il mondo vi avrebbe riso in faccia. Il successo di tutti questi movimenti è dipeso dalla mobilitazione di massa e dalla volontà politica. Senza queste componenti sarebbero state impossibili. Ciò che accade "è" realistico. Quando facciamo in modo che accada lo diventa. La rivoluzione democratica globale è la sola opzione realistica che ci resta, è la sola strategia che può liberarci dalla dittatura globale degli interessi acquisiti e la sola che ha la possibilità di vincere.

                                                                                                                  George Monbiot (2003)

                                                                                                                 (fine terza parte)

Gianni Vannini - Blog politico
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