Per una giustizia globale (terza parte)
Dobbiamo
democratizzare la globalizzazione. Ma in questo ambito ci imbattiamo in una
grande divisione: tra riformisti e rivoluzionari. Mentre i rivoluzionari
desiderano spazzar via le istituzioni globali e internazionali esistenti, i
riformisti come George Soros, finanziere e autore del manifesto
"Globalizzazione", preferiscono operare al loro interno. Soros propone alcune
misure, quali l'utilizzo dei Diritti speciali di prelievo (le riserve
finanziarie stanziate dall'FMI), per costituire un fondo di sussidi in favore
delle nazioni più povere, la modifica degli interventi dell'FMI nell'economia
del mondo povero e l'indipendenza del
Direttore della Banca mondiale dai governi che lo hanno nominato. Si
tratta, per quanto limitate, di misure progressiste. Ma, insiste Soros, questo
è il massimo che possiamo aspettarci di ottenere: "Sarebbe irrealistico
propugnare un totale cambiamento del sistema finanziario internazionale....Gli
Stati Uniti non cederanno mai la loro posizione....Non vedo il motivo per
proporre soluzioni più radicali quando le autorità non sono disposte a prendere
in considerazione nemmeno quelle moderate che ho testè abbozzato". Al pari di
molti atri, George Soros considera inattuabili e irrealistiche le alternative
rivoluzionarie. Se dobbiamo limitare le nostre proposte a ciò che "le autorità
sono disposte a prendere in considerazione", secondo me tanto vale lasciar
perdere e consentire alle autorità di governare indisturbate il mondo. Persino
le modeste riforme dell'FMI e della Banca mondiale che propone Soros sono
ostacolate dagli stessi statuti che egli desidera rabberciare. Gli Stati Uniti,
come abbiamo visto, possiedono diritto di veto su qualsiasi modifica allo
statuto di tali organizzazioni. Non hanno, al momento, alcun incentivo ad
abbandonare questo diritto e Soros non avanza proposte per una modifica degli
incentivi. Tali enti sono, di conseguenza, intrinsecamente non riformabili. Il
problema può anche essere esaminato da un altro punto di vista. Supponiamo che,
avendo trovato qualche nuovo incentivo con cui modificare il comportamento
degli Stati Uniti, si riesca a creare una pressione politica sufficiente a
persuadere quella nazione a sospendere il diritto di veto e permettere di
modificare lo statuto della Banca mondiale e dell'FMI. Avremmo così costretto
la più grande superpotenza mondiale a rinunciare volontariamente alla propria
posizione egemonica. Se questo fosse possibile qualsiasi cosa lo sarebbe. E, se
tutto è possibile, perché mai dovremmo accontentarci di quel genere di riforme
che, come ammette Soros, "sono fragili al cospetto dell'immensità dei problemi
che dovrebbero risolvere"? Perché non abbracciare le proposte che ci darebbero
i risultati desiderati al posto di quelle che "le autorità sarebbero disposte a
prendere in considerazione"? Le misure "realistiche" di George Soros rivelano o
un irrealismo disperato o una disperata mancanza di ambizione. Di certo, come
lui stesso riconosce, non forniscono mezzi realistici per risolvere i problemi
del mondo, anche qualora attuate. Sono disperate sotto due aspetti: sono mezzi
inutili per ottenere il cambiamento e riflettono l'assenza di speranza.
Considerazione altrettanto importante, le soluzioni di compromesso non
suscitano l'entusiasmo popolare. Chi ha voglia di combattere e magari, in extremis,
di sacrificare la propria vita per soluzioni che sono "fragili al cospetto
dell'immensità dei problemi che dovrebbero risolvere"? Sappiamo che una riforma
delle istituzioni illegittime probabilmente non farebbe altro che aumentare la
loro credibilità e con essa l'autorevolezza dei loro poteri illegittimi. Non
emergerà alcuna soluzione utile agli oppressi se a esigerla non saranno grandi
quantità di persone, e non una volta sola ma costantemente, ed esse ovviamente
non la esigeranno se ritengono che sia senza speranza. Se coloro che si
battevano per la democratizzazione nazionale nell'Europa del diciannovesimo
secolo avessero affrontato il loro compito con lo stesso realismo disperato dei
riformisti che si battono oggi per la democratizzazione globale i loro attuali
discendenti si ritroverebbero in una situazione in cui è concessa facoltà di
voto solo a quelli che guadagnano, poniamo, 50.000 dollari l'anno o possiedono
dieci ettari di terra al posto del suffragio universale. Ogni rivoluzione
avrebbe potuto essere definita (e in un certo senso lo era) "irrealistica" solo
poco tempo prima che scoppiasse. La Rivoluzione americana, la Rivoluzione
francese, la concessione del diritto di voto alle donne, l'ascesa del
comunismo, la caduta del comunismo, le aspirazioni dei movimenti a favore della
decolonizzazione sono state schernite dai riformisti, convinti che il massimo
cui si potesse aspirare fosse riparare alla bell'e meglio le istituzioni
esistenti ed elemosinare qualche concessione di poco
conto
dai poteri dominanti. Se nel 1985 aveste annunciato che entro cinque o sei anni uomini e donne
armati di mazze avrebbero buttato giù il muro di Berlino, il mondo vi avrebbe
riso in faccia. Il successo di tutti questi movimenti è dipeso dalla
mobilitazione di massa e dalla volontà politica. Senza queste componenti
sarebbero state impossibili. Ciò che accade "è" realistico. Quando facciamo in
modo che accada lo diventa. La rivoluzione democratica globale è la sola
opzione realistica che ci resta, è la sola strategia che può liberarci dalla
dittatura globale degli interessi acquisiti e la sola che ha la possibilità di
vincere.
George Monbiot (2003)
(fine terza parte)