Sul green pass il "ce lo dice l'Europa" non conta... (ultima parte)

12.09.2021


6. Voci contro il lasciapassare e l'Emergenza

Non ci sono più gli shitstorm di una volta

La prima puntata di questa miniserie ha avuto molti riscontri. E stata discussa, citata e utilizzata come base per ulteriori riflessioni. È anche servita a molte persone per rintuzzare gli scomposti attacchi ad Alessandro Barbero - ne parliamo tra poco - e dimostrare che ci sono ottime ragioni per criticare la politica del lasciapassare sanitario.

Negli ultimi giorni si sono alzate nuove voci critiche, non solo sul lasciapassare ma, retrospettivamente, sull'intera gestione dell'emergenza pandemica. Voci provenienti dall'anticapitalismo, o quantomeno da ciò che resta di una sinistra che si oppone alle logiche neoliberali.

La sensazione è che ormai l'accerchiamento sia rotto. Come già detto, siamo sempre in minoranza. Lo siamo eccome, se non a pensare certe cose - l'insofferenza è sempre più vasta -, quantomeno a cercare di esprimerle in modo articolato. Ma è lontano il tetro 2020, quando a noi tre e alla nostra community sembrava di essere Pike, Dutch e i fratelli Gorch nell'ultima, disperata camminata. Andavamo allo scontro così, con l'unico obiettivo di lasciare una testimonianza, le prove che qualcuno aveva detto qualcosa di diverso.

Nel 2020 e per buona parte del 2021 criticare l'Emergenza o anche solo un singolo provvedimento era garanzia di scomunica, amicizie rotte, isolamento, linciaggio via social e cavalloni di ingiurie su cui toccava manovrare l'asse da surf tipo Un mercoledì da leoni. Tutto questo c'è ancora, ma non ha più quella forza.

Lo sfondamento più clamoroso, l'apertura della breccia più grossa nell'opinione pubblica si deve all'ormai celebre appello dei docenti e ricercatori universitari contro il pass.

Il firmatario più famoso, il già menzionato Barbero, ha vissuto un suo, ehm, "momento Wu Ming". Nella polemica che lo ha coinvolto abbiamo rivisto i «lettori delusi», i parrocchetti del «che-brutta-fine-ha-fatto», i cacatua del «bravo-quando-fa-storia-ma-non-deve-fare-politica» e altre figure di un folklore che noialtri ben conosciamo. In fretta e furia il nome dello storico e scrittore è stato aggiunto alla lista, se non dei «No Vax» (ma qualcuno ci ha provato), quantomeno degli «irresponsabili», degli «egoisti», di quelli che «forse non se ne sono accorti che la gente muore!!!1!!»

Reazioni che un anno fa avrebbero decretato la sua espulsione dal consesso dei nominabili in società, com'è capitato a Giorgio Agamben, ma che oggi, col clima in parte mutato, sono sembrate subito sdozze e curvate sull'effetto boomerang. Di fatto, hanno spinto molti a interrogarsi, leggere bene... e poi difendere Barbero.

A condannare il tentato linciaggio è stato anche uno che ne aveva appena subito uno di pari intensità, benché per motivi diversi: lo storico dell'arte Tomaso Montanari, che in un suo articolo apparso prima sul Fatto Quotidiano e poi sul blog Volere la luna ha citato e utilizzato proprio Ostaggi in Assurdistan.

Insomma, la critica non è più clamantis in deserto.

Di contro, ed è comprensibile, c'è ancora molta confusione.


Dobbiamo camminare sulla fune giusta

Troppi interventi mischiano più temi e piani del discorso di quelli che i loro autori possono gestire, fornendo così appigli a "svicolatori" e detrattori e risultando meno efficaci di quanto potrebbero.

Per fare un esempio: troviamo controproducente infilare a forza nelle analisi sul lasciapassare e altri diversivi riferimenti alle - vere o fantasticate che siano - «cure domiciliari». Noi lo abbiamo sempre evitato perché:
a. non ne sappiamo un cazzo, non abbiamo le competenze per capirci davvero qualcosa e non vogliamo fare i tuttologi;
b. su quella china si finisce sempre per discutere non dell'Emergenza come metodo di governo, dei diversivi e quant'altro, ma di invermectina o idrossiclorichina, di quel che dice o fa il tale o il tal altro medico presuntamente "perseguitato" ecc. Ci si difende dall'accusa, fondata o meno, di credere a «pseudoscienze», ci si perde in minuzie e numerelli, e il dibattito si spoliticizza.

Troviamo problematiche anche le proposte d'azione incentrate sul rifiuto di scaricare il lasciapassare. Si tratta di esortazioni superate dai fatti, dal momento che già un mese fa più di quaranta milioni di persone l'avevano scaricato. Massimo rispetto per chi non vuole «farsi il green pass», ci mancherebbe. Ma un agire politico non può basarsi su una scelta tanto esclusiva, spesso - non sempre, ma spesso - compiuta da chi può permettersi di compierla.

La gente scarica il lasciapassare per poter lavorare e vivere. Questo dato di fatto sarebbe scalzabile solo da una disobbedienza organizzata e diffusa. Ma un'opposizione maggioritaria non si è materializzata. Del resto, come avrebbe potuto? In queste condizioni nemmeno noi, come spieghiamo sotto, possiamo concederci il lusso del "bel gesto".

Se rifiutiamo la trappola dicotomica vaccinismo/antivaccinismo, a maggior ragione dobbiamo rifiutare l'altra falsa linea di frattura, quella tra chi ha e chi non ha il lasciapassare. Non possiamo sprecare fatica e senso dell'equilibrio camminando sulla fune sbagliata.

Del lasciapassare dobbiamo denunciare, tutte e tutti insieme, irrazionalità e secondi fini. Dobbiamo lottare perché venga richiesto in sempre meno circostanze e, meglio ancora, venga abolito. Gli argomenti a favore di quest'abolizione sono numerosi e facilmente spiegabili. A questo proposito, ricordiamo un paio di banalità di base.

■ Il lasciapassare è l'ennesimo provvedimento emergenziale descritto come inevitabile... eppure evitato nella maggior parte dei paesi. Quando qualche esperto da social vi dice che «il pass c'è in tutta Europa», sappiate che sta confondendo, forse a bella posta, due documenti diversi: il Certificato Covid Digitale dell'UE - che consente di viaggiare tra paesi membri e ha praticamente solo quello scopo - e il lasciapassare sanitario, che con queste caratteristiche, almeno al momento, esiste in pochissimi paesi.

■ In Italia il lasciapassare è stato introdotto e viene usato in modalità - e per finalità - da cui la stessa OMS mette in guardia.


La padella e la brace: occhio a non chiedere l'obbligo vaccinale

Nel frattempo, anche qui unici in Europa, si discute dell'obbligo vaccinale generalizzato. Draghi ha detto che se ci sarà l'ok dell'EMA (il che è improbabile) il governo andrà in quella direzione. Non è detto che lo faccia davvero. Finora ha avuto i suoi buoni motivi politici per non farlo e li ha spiegati Wolf Bukowski.

Secondo il duo Corbellini & Mingardi, storici liberali e liberisti e perciò molto distanti da noi, ovviamente i motivi del governo sono altri, ancorché sempre politici. Uno di questi è che «ci esporremmo al ridicolo mondiale». Citare le ragioni di una tale affermazione consente di dare informazioni interessanti:

«Oggi ci spiegano tutti, a cominciare dai più insigni giuristi, che l'obbligo vaccinale è costituzionale. Ci mancherebbe! Questo lo capiscono anche i bambini. Ma già qualche adolescente può dire: scusate, ma chi lo adotta l'obbligo? [...] chi ha introdotto finora l'obbligo vaccinale anti-Covid per tutti? Solo quattro Paesi: le dittature del Turkmenistan e del Tagikistan, la democrazia islamica dell'Indonesia e la Micronesia [...] Nemmeno Vladimir Putin, che non riesce a far vaccinare quasi nessuno e forse è meno liberale di Letta, Draghi, ecc. si è fatto venire l'idea di obbligare alle vaccinazioni.»

Dobbiamo stare attenti, nel criticare il lasciapassare in quanto obbligo surretizio e ipocrita, a non dare l'impressione di preferire l'obbligo tout court. Quest'ultimo è sconsigliato dalla stessa OMS se non come extrema ratio in particolari condizioni che oggi in Italia non si presentano.

Già che ci siamo: l'OMS ha pure criticato i paesi come il nostro che puntano a somministrare la terza dose di vaccino. «Non possiamo accettare che paesi che hanno già usato gran parte delle scorte mondiali di vaccini ne usino ancora di più», ha dichiarato Tedros Adhanom Ghebreyesus. «È urgente invertire la tendenza, oggi la maggior parte dei vaccini va in paesi ad alto reddito, deve andare in quelli a basso reddito».

Vista in quest'ottica, la partita giocata dal governo Draghi/Speranza sulla terza dose mostra la sua vera natura. Radicata nell'ideologia - mai dichiarata ma sempre operante - della supremazia bianca, sfrutta e rafforza il privilegio occidentale. Come ha scritto Mattia Galeotti, studioso degli usi politici dei discorsi sulla scienza:

«i governi occidentali non pensano di poter eradicare il virus al di fuori dei loro confini, si muovono alla giornata mantenendo i loro privilegi e probabilmente intendono nel prossimo futuro barricarsi dentro frontiere fortezza, separati dai focolai a più alta infettività.»

Ma ora dobbiamo arrivare al punto: il lasciapassare e noi. Inteso proprio come noi Wu Ming. O meglio: noi Wu Ming e chi come noi lavora con la cultura.

Ennesima declaratio terminorum: nei paragrafi che seguono non diremo «lavoratori/lavoratrici di cultura e spettacolo» ma «della cultura» e basta, perché include già tutto: letteratura, musica, teatro, cinema, arti visive e plastiche, festival, musei, biblioteche ecc.

7. Ritorno a un paesaggio di macerie

Lo scambio spettacolare pro Confindustria

Nel 2020 la cultura, insieme alla scuola pubblica, è stata la prima a essere chiusa e l'ultima a riaprire.

Lo abbiamo raccontato diverse volte: il disastro della mancata zona rossa in bassa val Seriana - con il virus lasciato libero di correre in una delle zone più inurbate, popolose, collegate e trafficate d'Italia - spinse il governo Conte bis a metterci una toppa peggiore del buco, cioè il «lockdown» nazionale... senza metterla sul buco, perché le aziende che Confindustria non aveva voluto chiudere in val Seriana rimasero aperte là e in tutta Italia. Nessuno tiri fuori la storia delle produzioni «essenziali», già l'1 maggio 2020 la raccontammo in forma di barzelletta.

Lavoratrici e lavoratori continuavano ad ammassarsi nelle fabbriche, e ad ammassarsi su treni e corriere, per poi ritrovarsi tappate in casa nel tempo libero, salvo qualche puntata al supermercato. Tutti spazi chiusi, quelli in cui il Sars-Cov-2 poteva gozzovigliare.

Nel mentre, governo e sceriffi locali combattevano il contagio dove era maggiormente implausibile: all'aperto, in parchi e piazze, sulle spiagge, nei boschi... E dagli al runner, al passeggiatore, al papà che porta il bimbo a giocare di nascosto! Le "pezze d'appoggio" le forniva una campagna mediatica che è corretto definire terroristica, volta a far credere con ogni mezzo - anche manipolando studi che dimostravano tutt'altro - che il virus fosse genericamente «nell'aria».

Repetita iuvant: all'aperto il contagio da Sars-Cov-2 è parecchio improbabile. Nessuno scienziato serio dirà mai che è impossibile, ma gli studi disponibili dicono che accade molto, molto di rado. Nell'aria aperta il virus non è nemmeno rilevabile.

Questi studi sono di svariati mesi fa, alcuni già del 2020, eppure ci siamo dovuti sorbire l'obbligo di mascherina all'aperto. Obbligo totalmente privo di senso, ma da poco reintrodotto in Sicilia. Negli USA questo genere di provvedimento è criticato con durezza nella stampa liberal. I nostri "liberal", invece, aderiscono con zelo a un comportamento che non è profilassi, bensì superstizione - è più o meno come portare con sé un ferro di cavallo - e spettacolo sociale.


Soprattutto, la mascherina all'aperto è un pericoloso diversivo, come ha fatto notare anche la sociologa Zeynep Tufekci:

«Rendendo obbligatoria o comunque normalizzando la mascherina all'aperto in ogni circostanza mandiamo messaggi sbagliati su quali siano i veri fattori di rischio, che sono al chiuso, soprattutto in spazi affollati e poco ventilati. A più di un anno dall'inizio della pandemia, la gente continua a non essere informata in modo corretto su dove e come dovrebbe fare più attenzione.»


Torniamo alla primavera 2020. Quanto descritto avveniva in uno scenario raggelante, città e paesi fantasma, luoghi senza più cultura né arte né svaghi, desertificati da una politica che, mentre tutelava gli interessi dei padroni più della salute dei cittadini, a tutti noi chiedeva contrizione. La stessa persona poteva (no, doveva!) assembrarsi con altre in fabbrica o sul treno, ma non per vedere un film o un concerto o una presentazione di libri. L'unico teatro ammesso era il teatro dell'igiene. L'unica rappresentazione ammessa era quella della penitenza, perché i morti erano colpa nostra. Indiscriminatamente colpa nostra.

Nell'aprile 2020 chiamammo quella grande manovra diversiva «scambio spettacolare» o, beffardamente, «grande sostituzione». Ma farci capire era difficile, quasi impossibile, tanta era la paura che attanagliava anche chi avrebbe avuto gli strumenti per comprendere.


Primavera 2020, la cultura dalle luci intermittenti al blackout

Che ne fu, in quella fase, di chi nella cultura lavorava e di cultura campava? Non solo gli artisti, ma i tecnici «intermittenti», i precari, le maestranze legate agli spettacoli... Tutti «liberi professionisti» rimasti senza alcun reddito, che avevano difficoltà a dimostrare formalmente quante entrate avessero perso, e quindi a farsi risarcire dallo stato. In quelle categorie c'è sempre stato molto lavoro grigio, per questo calcolare un rimborso a reddito non era facile. E anche quando calcolati e percepiti, i sussidi erano una miseria.

In quella fase molti lavoratori temettero che le strutture cedessero e non riaprissero più - cosa che in molti casi è accaduta - o riaprissero chissà quando. Con il sussidio sapevano di non poter andare avanti a lungo. Le email spedite al sindacato dai lavoratori di cinema e teatri sembravano scritte alla Caritas. Il tenore era questo: «Sono un tecnico del suono rimasto senza ingaggi a seguito dei decreti covid, ho un figlio a carico, seguito dai servizi sociali. Mi restano 50 euro in tasca per l'ultima spesa che posso permettermi. Aiutatemi, vi prego. Grazie». Quello fu l'inizio di una nuova sindacalizzazione.


Detta fuori dai denti: il virocentrismo prevalse tra chi se lo poteva permettere, cioè tra lavoratori e lavoratrici tutelate nel reddito e nel posto di lavoro mantenuto anche in assenza. Per tutti gli altri la paura più intensa era ed è ancora quella di andare in rovina, il puro e semplice ricatto della miseria. Con l'aggravante di vedere scagliati contro le proprie legittime argomentazioni gli epiteti «negazionista» e - gergalità nel frattempo passata di moda - «riaperturista».


Autunno 2020: la seconda chiusura, lo sconforto, la rabbia.

Nella breve parentesi di ritorno all'attività, molte realtà del settore - spesso investendoci gli ultimi soldi - si adeguarono a ogni «protocollo di sicurezza». Cinema e teatri erano a ingressi "contingentati" e perciò più che mezzi vuoti; gli ingressi erano regolati e tracciati, con tanto di numeri di telefono degli spettatori...

Le richiusure dell'autunno 2020 suscitarono collera, e tagliarono il fiato e le gambe di tutti. Il 26 ottobre, ospitato sulle pagine bolognesi di Repubblica, il direttore della cineteca di Bologna Gianluca Farinelli scrisse:


«Sono sospesi gli spettacoli aperti al pubblico in sale teatrali, sale da concerto, sale cinematografiche e in altri spazi anche all'aperto. Difficile trovare una logica. Sembra una commedia di Ionesco, un'esperienza surreale, un tragico errore. Da giugno, le varie forme di spettacolo sono faticosamente ripartite, adeguandosi a regole complesse e costose, cercando di ritrovare una relazione con il pubblico, tra infiniti e crescenti ostacoli. I cinematografi hanno visto scomparire i film, che erano stati promessi, per i quali avevamo riaperto. Eppure abbiamo continuato a programmare, a inventare proposte trovando un pubblico curioso, sempre attento alle regole e rassicurato, nel trovare sale e personale capaci di adeguarsi al rispetto delle regole.
Poi, ieri, di colpo, si richiude.
Senza che ci sia stato un solo focolaio originatosi in una sala di spettacolo, mentre si mantengono aperte attività che hanno certamente potenziali di pericolo molto più alti di un cinema, dove le persone arrivano, sono ben distanziate, guardano davanti a sé, verso lo schermo, non passano il tempo a parlarsi ... Eppure i cinema sono attività economiche, come quelle che si è voluto tutelare mantenendole, almeno in parte, aperte [....]»


Farinelli rispondeva indirettamente al ministro Franceschini, che il giorno prima aveva dichiarato: «Chi protesta per cinema e teatri non capisce la gravità della situazione».

In realtà, era chi chiudeva cinema e teatri a gettare fumo negli occhi sulla gravità della situazione. Abbiamo già spiegato con quale escamotage molti focolai nell'industria manifatturiera furono resi invisibili, mentre governo e media compiacenti imponevano narrazioni diversive e additavano falsi bersagli: la cultura, la «movida»... Ma l'aspetto più grave era che il ministro fingeva di ignorare che la maggior parte dei lavoratori della cultura non aveva ammortizzatori sociali.

A riempire di rabbia i lavoratori della cultura era che tante attività fossero state chiuse alla cieca, non certo perché focolai di contagio. Ogni volta che si è dovuto chiudere qualcosa, è toccato alla cultura (e alla scuola).


2021, il lasciapassare e poi che altro?

È passato quasi un anno. Durante l'estate che sta finendo certi festival, feste e rassegne - letterarie, musicali, cinematografiche - sono riuscite a ripartire. Ad altre, come il Montelago Celtic Festival, è stato pretestuosamente impedito.

L'autunno è ormai qui. Tra chi non ha dovuto chiudere baracca c'è voglia/necessità di ripartire davvero, ma c'è anche incertezza per quel che il governo potrebbe ancora inventarsi.Già l'introduzione del lasciapassare tramite un decreto bizantino e pieno di buchi ha seminato dubbi e generato il caos, come si appura leggendo la stampa locale di ogni angolo d'Italia.

Il lasciapassare va a impattare soprattutto sulla cultura. In questo prosegue l'andazzo che abbiamo appena descritto, cominciato nel marzo 2020. Del resto, dalle classi dirigenti la cultura è sempre vista come un "di più", qualcosa di cui occuparsi, se proprio, dopo tutto il resto, ed è chiaro che ai nostri politici - anche a quelli che passano per intellettuali - viene automatico penalizzare questo settore.

Nel nostro settore il lasciapassare è richiesto per spettacoli aperti al pubblico, musei, altri istituti e luoghi della cultura e mostre, sagre e fiere, convegni e congressi, centri culturali, parchi tematici, centri sociali e ricreativi (questi ultimi limitatamente alle attività al chiuso e con esclusione dei centri educativi per l'infanzia, compresi i centri estivi). La presentazione di un libro è assimilata a eventi quali convegni e fiere, per i quali la legge non fa alcuna distinzione tra chiuso e aperto, ergo, a rigore, il lasciapassare andrebbe richiesto sempre.

Ma questi sono ancora discorsi astratti, non rendono l'idea del vivere e lavorare in Assurdistan. Servono esempi concreti.


Vuoi farti una scarpinata culturale?

Un ginepraio inestricabile di prescrizioni attende chi volesse organizzare una scarpinata letteraria, come quelle che spesso abbiamo proposto noi, nel rispetto della normativa Covid.


Anzitutto, ci sono le regole che riguardano le escursioni. Regole che non sono frutto di un provvedimento legislativo diretto - non le trovi sulla Gazzetta Ufficiale - ma nelle delibere delle varie associazioni di settore: guide ambientaliste, CAI e via discorrendo. In linea di massima:

■ i partecipanti devono prenotarsi in anticipo, devono avere il lasciapassare e non possono essere più di 20, tutti e tutte col lasciapassare. In caso di gruppi più numerosi, ci si deve attrezzare con più accompagnatori, per dividerli in sottogruppi da 20 che partano scaglionati lungo il percorso. Per dire: se hai 100 persone devi fare 5 gruppi e anche solo per farli partire tutti, scaglionati, ti va via almeno un'ora di tempo. Poi devi fare attenzione che un gruppo non vada più veloce di un'altro, se no ci si compatta e scatta l'assembramento.
■ Durante la marcia bisogna mantenere almeno due metri di distanza, altrimenti: mascherina.
■ Le soste devono essere in luoghi che consentano il distanziamento, altrimenti: mascherina.

Questo solo per quanto riguarda il cammino. Se poi nelle soste sono previste letture di attori, o performance di qualunque genere, allora si ricade nella fattispecie dello "spettacolo dal vivo", e quindi, in aggiunta a quanto detto per le escursioni, cioè prenotazione anticipata e lasciapassare:

■ lo spazio sede dell'evento dev'essere delimitato, con un'entrata diversa dall'uscita.
■ Vanno predisposti dei dispenser con prodotti per igienizzare le mani.
■ Ci devono essere sedie distanziate e quindi inamovibili, ovvero picchettate a terra.

Gli organizzatori di "escursioni con performance" si sono dovuti inventare stratagemmi: ad esempio, se il musicista che intratterrà i camminatori salta fuori all'improvviso, lungo il percorso, senza un punto di sosta predefinito, allora pare non scattino le norme per lo "spettacolo dal vivo": il tizio passava di lì, con il suo strumento, mica puoi impedirgli di suonare...


Suerte, cazzo, suerte!

Nell'era del lasciapassare ci è già capitato di stare "dalla parte degli artisti" in uno di questi spettacoli all'aperto. E' successo ai primi d'agosto, per le otto repliche di Suerte!, con il Circo El Grito, Andrea Satta e Wu Ming 2, agli Orti Giuli di Pesaro.

In quel caso, oltre all'obbligo di lasciapassare - per le repliche dopo il 6 agosto - e oltre alle sedie picchettate a terra c'era anche un incredibile obbligo di mascherina, nonostante si fosse sotto il cielo stellato, vaccinati o tamponati, distanziate e igienizzate. Inoltre, nell'interagire col pubblico, bisognava fare attenzione a non toccare nessuno.

Non è tutto: gli spazi a disposizione, con le regole del distanziamento, permettevano di mettere a sedere non più di 50 persone. Ma con 50 persone per ogni replica lo spettacolo sarebbe andato in perdita, oltre a lasciar fuori molta gente. Ecco allora che ci siamo dovuti inventare una formula itinerante, con tre punti sosta e due gruppi di 50 spettatori, stabiliti all'ingresso, che si alternavano nelle tappe. Ad ogni replica, quindi, bisognava ripetere lo stesso "numero" per due volte, una per ogni gruppo, col risultato che dopo due repliche ognuno di noi aveva dovuto fare il doppio della fatica: il che, se usi la voce, come WM2, non è poi un gran danno, ma se fai evoluzioni su un palo alto sei metri o ti appendi a testa in giù a un nastro di stoffa, moltiplicare per due non è proprio indifferente.

Un altro stratagemma per gli spettacoli all'aperto ce l'ha illustrato un amico libraio e organizzatore di eventi:

«Noi, e altri come noi, abbiamo ovviato con un "trucco": l'area andrebbe perimetrata [...] essendo all'aperto è però pubblica e non la si può vietare a chi ne è sprovvisto. Abbiamo anche fornito sedie [...] e fatto in modo che fuori dal perimetro non si perdesse qualità d'ascolto, chiedendo agli sprovvisti di pass di stare dietro al nastro che delimitava l'area.»

Tutta questa italica arte di arrangiarsi ha però un limite enorme: l'arbitrio. In ultima analisi, tutto dipende dal livello di vicinanza che gli organizzatori dell'evento hanno con il sindaco, il maresciallo, il teatro comunale, la Pro Loco... Se c'è una certa intimità, le soluzioni si trovano. Altrimenti, ogni pretesto è buono per mettere i bastoni tra le ruote a chi non è tanto gradito.


Biblioteche: il dentro che diventa fuori e viceversa

Un'altra vicenda che ci riguarda da vicino, per la sua funzione sociale e culturale, è quella delle biblioteche.

Senza lasciapassare non si può entrare, chiedere consigli di lettura, sedersi a un tavolo, scegliere un libro, fermarsi a leggere. Anche in questo caso, dal basso, bibliotecari e bibliotecarie hanno cercato di organizzarsi per non vedere del tutto svilito il loro ruolo e la loro presenza sul territorio.

Sappiamo di biblioteche dove sono state istituite delle zone di pre-ingresso, spazi liminari che non sono ancora "dentro" ma non sono nemmeno "fuori", stanze dove si può accedere senza lasciapassare e trovare il libro che si è prenotato al telefono o via mail, e dove si può parlare con gli addetti, chiedere consigli e anche leggere un libro, pescato da una selezione che cambia ogni giorno e viene appositamente "liberata" dagli scaffali ormai off-limits per i nuovi "sans papier".


Kein Mensch Ist Illegal!

«Luther Blissett ha vittoriosamente condotto a termine la prima battaglia della guerra psichica da lui scatenata a Roma contro il feticcio identitario. Al termine dalla puntata zerouno di Radio Blissett, intorno alle 3.00 di mattina una folla inferocita di circa settanta Luther si è concentrata in via Petroselli di fronte all'Anagrafe di Stato per dar corso all'attacco psichico "contro il nome proprio, per la gioia di scegliere liberamente il proprio nome in ogni occasione". Come rito propiziatorio, su ordine di due poliziotti di passaggio che intimavano di attraversare sulle strisce, Luther Blissett ha bloccato il traffico, intervistando gli automobilisti in diretta e distribuendo volantini per l'abolizione del nome proprio.

Subito dopo, guidato dalla voce eterea di se stesso, ha inscenato il portentoso attacco psichico contro l'Anagrafe di Stato: per oltre due minuti, almeno cinquanta dei Luther presenti hanno pronunciato ossessivamente la sillaba OM in posizione di attacco, condensando un buon flusso di energia psichica, che è stato saggiamente interrotto al crollo dei primi cornicioni. Ciononostante la struttura dell'edificio non ha retto e, come sbriciolandosi, ha ceduto nei minuti immediatamente successivi.

Quando intorno alle 4.00 del mattino l'adunata sediziosa si è sciolta, continuavano ad arrivare Luther psicoarmati in assetto da combattimento.»

Questo comunicato di rivendicazione fu diramato all'alba del 28 maggio 1995.

Noi veniamo da lì, dal Luther Blissett Project.

Più in generale, veniamo da movimenti e cicli di lotte in solidarietà a chiunque si ritrovasse «clandestino». Abbiamo gridato: «No border!»; «Siamo tutti sans papiers!»; «Nessun essere umano è illegale!»

Figurarsi, dunque, se ci fa piacere che all'ingresso di un nostro evento sia necessario mostrare un documento altrimenti si resta fuori! È una cosa che ci dà la nausea, che ci suscita ribrezzo.

Nondimeno, dobbiamo tornare in strada. Per diversi motivi.

A parte Giap, per noi c'è solo la strada. Come riassumevamo due anni fa, noi «cerchiamo di evitare foto e video, non andiamo ospiti in TV, non offriamo le nostre vite al gossip. Appariamo soltanto dal vivo, di persona, nel modo meno mediato possibile. Se qualcuno ci riconosce per la via, significa che è stato a una nostra presentazione, reading, laboratorio, seminario, trekking urbano o quant'altro. Il suo corpo ha condiviso coi nostri uno spazio fisico e un'esperienza concreta.»

Nel lungo periodo in cui è stato impossibile organizzare eventi dal vivo, noi ci siamo rifiutati di surrogarli con "eventi" on line, perché per noi nell'incontro con lettrici e lettori si esprime, per dirla con Marco Bascetta,

«la natura sociale, relazionale, affettiva, corporea, sensibile, dell'animale umano. La sua propensione ad attraversare situazioni e ambienti sempre diversi e a sperimentarvi tutti i suoi cinque sensi [...] Che la dimensione telematica possa riassorbire e restituire tutto questo, o anche solo surrogarlo pro tempore è più che una cattiva utopia, una triste illusione. Dietro la mimica impoverita, lo sguardo perso nel vuoto, l'ordine sequenziale di ogni comunicazione virtuale si percepisce facilmente questa semplice verità. E poiché altra forma attualmente non ci è concessa (non è una possibilità "in più", ma molte in meno) lo schermo ci appare più che altro come il parlatoio di un carcere con i suoi orari e le sue regole. Cosicché il risultato di questa costrizione nel mondo virtuale, più che a un generale apprezzamento delle sue potenzialità condurrà, probabilmente a una reazione di nausea.»

Non andiamo in tv, non stiamo sui social, non facciamo eventi on line. C'è solo la strada. Se d'ora in poi facessimo "obiezione di coscienza", se ci rifiutassimo di fare iniziative «perché c'è il green pass» (alcuni artisti hanno già fatto dichiarazioni in questo senso), la quantità di autolimitazioni e rinunce si farebbe soverchiante e metterebbe a repentaglio la tenuta del nostro progetto.

Oltre a questo, sentiamo fortissima la responsabilità nei confronti di altri soggetti: associazioni, circoli, piccoli teatri, librerie, singoli promotori di eventi... Insomma, tutta la gente che si è sbattuta per organizzarci date. Sono quasi sempre realtà indipendenti, duramente provate da questi terribili diciotto mesi, che oggi provano a ripartire. Non possiamo lasciarli a terra per il lusso di prendere una posizione ipercoerente.

Insomma, siamo ostaggi in Assurdistan.

Come molte altre persone, ci toccherà fare lo slalom tra le norme, tentare stratagemmi, trovare escamotages... In sostanza, bere l'amaro liquido verde. Non possiamo nemmeno aggiungere «fino alla feccia», perché è tutta feccia, fin dal primo sorso. Dovremo sorbircelo, 'sto lasciapassare.

Al contempo, continueremo a denunciarlo a gran voce, valorizzando come possiamo ogni resistenza, ogni mobilitazione contro l'Emergenza. Che almeno questa nuova branca del nostro never ending tour sia un'occasione per fare inchiesta, discutere e pensare insieme forme di lotta, spargere il contagio del malcontento.

E poi, può sempre capitare che gli ostaggi si ribellino, e abbiano la meglio sui loro carcerieri.


Wu Ming

Gianni Vannini - Blog politico
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