Trieste: una cronaca dall'interno (seconda parte)
9. Prologo al caos
La mattina di sabato 16 ottobre mi presento al varco piuttosto presto, per vedere che aria tira dopo la prima notte, poi dovrò andarmene a lavorare. Ai gate Stefano Puzzer, appena arrivato anche lui, si sta lamentando con alcuni dei presenti per qualche cartaccia e mozziconi di sigaretta rimasti là davanti dalla sera prima. - Muli, qua xe pien de scovaze -, dice sconsolato, - no se pol veder. Poi recupera una scopa e inizia a pulire.
Non c'è ancora molta gente, che significa che ce n'è almeno un paio di centinaia, più quelli che stanno riposando tra macchine e camper. Di chi non è rimasto per la notte io sono tra i primi ad arrivare, ma non il solo, il flusso inizia a riprendere. Mi fermo al gazebo dei lavoratori autorganizzati, che è diventato il punto di riferimento di lavoratori di altre aziende e di quelli provenienti soprattutto da Monfalcone. Mi arriva un caffè benedetto, ricambio lasciando alcuni cornetti che ho portato, e seguo una conversazione nella quale ci si scambia notizie sulle probabilità che questa o quella azienda conceda i tamponi. Capisco che in molti casi l'esito di queste trattative è condizionato dai capricci delle varie sigle sindacali. Alcune si stanno muovendo e facendo pressione nelle singole aziende, altre, come in Trieste Trasporti, pare puntino a lasciar sbollire la protesta per non dare soddisfazione a quelli che la stanno animando e che in molti casi stanno restituendo le tessere. Poi magari chiederanno i tamponi, dopo aver lasciato i lavoratori a casa anche per settimane.
Sento la voce di Puzzer al microfono. Mi avvicino per ascoltare. Dice di dover fare una comunicazione importante. Spiega in tono piuttosto dimesso che «purtroppo» alcuni colleghi quella mattina sono stati costretti ad andare a lavorare, anche con velate minacce di licenziamento, e quindi almeno in parte l'attività in porto è ripresa. «Ma devo dirvi una cosa molto grave», aggiunge alzando decisamente il tono. «Al Clpt è stato segnalato che tra questi portuali al lavoro, diversi sono operativi senza greenpass, perché alcune aziende non hanno predisposto controlli. Siamo molto arrabbiati per questo, e ora presenteremo un esposto al riguardo».
Resto perplesso sul senso di questa comunicazione. Mi ricorda il periodo del coprifuoco, nel quale la maggioranza delle persone, quella che non si era fatta terrorizzare dagli annunci governativi, sapeva che perlopiù nessuno si preoccupava di applicare la misura, e altrettanto sapeva che dirlo rischiava di fare il gioco degli altri, quelli che l'avevano accolta con zelo, alimentando la richiesta di ulteriori restrizioni. Quindi si stava zitti, si violava il coprifuoco e si partecipava alla grande ipocrisia. Il re è nudo, ma guai a dirlo. Disvedere sempre.
In realtà la parte che mi lascia più perplesso della comunicazione di Puzzer è quella a cui ha dato meno enfasi. Di fatto ha detto che lo sciopero è terminato, e pochi dei presenti sembrano aver colto le implicazioni di quell'affermazione.
Mentre rimugino ricevo un messaggio da Wu Ming 1: «Gira voce che Enrico Montesano stia salendo a Trieste...».
Impreco in silenzio.
Poi torno a lavorare anch'io.
10. Che ci faccio io qui?
Nella condizione straniante e sospesa del varco 4 si rischia di dimenticare che questo nonluogo è, come scrivevo, anche un ponte e una zona di intersezione - geografica, sociale, culturale, politica e chissà che altro... Caratteristiche che il travaso della mobilitazione contro il greenpass dalle piazze al varco finiranno per accentuare, determinando situazioni surreali. In questa dimenticanza si rischia di rimuovere le ambivalenze e le contraddizioni, le differenze tra ciò che sta sopra e ciò che sta in basso, alla ricerca di letture lineari di ciò che accade. Vale per chi di questa mobilitazione tentasse di raccontare solo gli elementi di rottura con il pensiero unico virocentrico, come per chi al contrario vi cercasse solo la conferma che è una mobilitazione insensata e irrazionale, una reazionaria espressione di egoismo individualistico.
Per spiegare meglio di cosa sto parlando tento di rispondere a una domanda che in queste settimane mi hanno posto spesso amici e familiari: ma tu, cosa ci fai lì? Domanda che io stesso in alcune occasioni mi sono posto: già, cosa ci faccio io qui?
C'è stato un momento, verso la metà di settembre in cui, con Wu Ming 1 e con alcune compagne e compagni del giro Nicoletta Bourbaki, avevamo iniziato a notare che dai cortei triestini arrivavano segnali di qualcosa che metteva in seria discussione la narrazione dominante sulle proteste innescate dalla gestione della campagna vaccinale e dall'introduzione del green pass.
La prima domanda, di fronte a manifestazioni che assumevano proporzioni enormi in relazione alle dimensioni della città stessa e della sua popolazione, derivava dal nostro vissuto condiviso: perché proprio a Trieste?
Da qualche anno avevamo una lente puntata su questo territorio, per via del lavoro di ricerca storica che tutti noi condividevamo. Lavoro che traeva origine dalla consapevolezza che i fenomeni e i conflitti politici e sociali appaiono più netti via via che lo sguardo si sposta dal centro verso i bordi. In questo caso verso una borderland, nella quale ogni evento storico del Novecento aveva prodotto fratture e capovolgimenti che hanno strascichi ancora oggi.
Nel 2013 questo lavoro ci aveva portato a indagare, oltre gli stereotipi del mainstream giornalistico, uno strano fenomeno neoindipendentista che aveva avuto il suo apice in un'altra manifestazione triestina di proporzioni considerevoli. Tuco (Martino Prizzi) e io in particolare, ma anche Wu Ming 1, avevamo in qualche modo "debunkato" quel fenomeno, ma mantenendo uno sguardo che, se da un lato ne aveva individuato le contraddizioni storiche e politiche (o geopolitiche, se si preferisce), come quelle riguardanti gli interessi economici che rappresentava, dall'altro faceva qualcosa che gli altri osservatori evitavano pregiudizialmente: prenderlo sul serio. Cosa ben diversa dallo sposarne le tesi e il programma.
In seguito il gruppo di lavoro Nicoletta Bourbaki - la sua componente altoadriatica - era stato parte, nel novembre del 2018, di una mobilitazione antifascista nata in risposta al tentativo di Casapound nazionale di strumentalizzare la città in occasione del centenario della supposta «vittoria italiana» nella Prima guerra mondiale. Avevamo messo a disposizione le nostre competenze storiche per smascherare la manipolazione. Molti altri collettivi e associazioni avevano lavorato per un mese fino a costruire una contromanifestazione che aveva portato in piazza non meno di diecimila persone - un numero impressionante per una scadenza locale e per una città che, frettolosamente, veniva etichettata come «di destra» -, inondando le strade della città e ridicolizzando la calata nazionale di Casapound, del tutto estranea alla città e ridotta a una triste parata con meno di un migliaio di partecipanti.
In tutti questi fenomeni di piazza e di mobilitazione, una sorta di sesto senso mi aveva segnalato l'emergere faticoso e contraddittorio di nuovi soggetti politici, intesi come riconfigurazioni di aggregati sociali determinati dal permanente stato di crisi del neoliberismo. Ma era appunto solo una sensazione, o forse una proiezione dei miei desideri. Che in ogni caso avrebbe meritato di essere indagata ulteriormente con un lavoro collettivo, senza interpretare quella scadenza come semplice riproposizione dell'attivazione di anticorpi al fascismo. Anticorpi che, ne sono convinto, nella società di questi territori resistono, malgrado anni di connivenze e di sottovalutazione da parte della sinistra istituzionale, ma che nel caso triestino, come in quello maceratese del febbraio precedente, non spiegavano tutto.
A partire da questa domanda, «perché proprio a Trieste?», e memore di quelle esperienze, mi ero infine deciso a partecipare a uno dei cortei no green pass, quello della mattina di sabato 25 settembre, «per mapparne la composizione e le strutture di sentimento», come avrei scritto.
11. È Facebook ad avermi portato qui
A quel punto però accadeva uno strano episodio. Poche ore dopo la manifestazione del 25 settembre ricevevo alcuni messaggi e telefonate che mi informavano di qualcosa che altrimenti non sarei venuto nemmeno a sapere, dal momento che non uso più Facebook dall'inizio della pandemia: la mia presenza alla manifestazione era stata filmata a mia insaputa e, sempre a mia insaputa, postata sul fetentissimo social di Zuckerberg. Il commento che la accompagnava, tra il sarcastico e l'indignato, lasciava intendere, senza nominarmi direttamente, che da attivista conosciuto in città per la mia militanza antifascista fossi finito a scendere in piazza coi fascisti. Per di più, si diceva nei commenti, risultando patetico, perché a cinquant'anni mi comportavo come se ne avessi venti.
Un ritratto professionale e dell'attività «social» della persona autrice di quel post - che conosco da molti anni, ma con cui da tempo avevo contatti meno che sporadici benché amichevoli - potrebbero risultare paradigmatici di quel metodo che confonde, come scriveva Wu Ming 2, «i risultati intermedi della ricerca scientifica con le verità più consolidate della scienza, e attribuisce a entrambi la stessa, incontestabile autorevolezza». Ma non è questo il punto. E solo in parte lo sono la rabbia e l'amarezza per quell'attacco pubblico ad personam che mi era stato rivolto, senza nemmeno la richiesta preventiva di un chiarimento.
In realtà quell'episodio del tutto marginale era paradigmatico di questioni più generali. Conteneva in sé molti degli aspetti critici su cui stavamo ragionando: uso e diffusione di dati e informazioni personali, tracciamento, relazioni smaterializzate, manipolazione delle informazioni, pregiudizi. Pregiudizi in base ai quali, secondo quelle persone, io stavo flirtando con «i fascisti no vax», e pertanto tutta la mia storia meritava di essere coperta di pece e piume.
Non solo: l'episodio indicava un nostro errore di approccio, perché quelle domande che ci ponevamo sui conflitti post-pandemici le formulavamo usando il tempo futuro, quando in realtà erano già domande sul presente. Un presente che in parte rifiutavo, che mi spingeva a tentare di rifugiarmi anch'io in qualche pregiudizio e in antiche certezze che, almeno da venti mesi a quella parte - ma forse venti erano gli anni - erano sbiadite e quasi inservibili, ma che sarebbero state utili a buttarmi quel casino alle spalle, e fingere che non ci fosse.
Soprattutto però l'episodio aveva i tratti di un oscuro presagio: qualcosa da cui credevo di essermi sottratto mi veniva a cercare, come avrebbe fatto ben presto con chiunque, utilizzando proprio lo spazio di intersezione del varco 4, che è anche un ponte che può unire e dividere, e quindi potrebbe anche essere visto e raccontato come una sorta di portale interdimensionale, come uno stargate, o anche l'ultravarco dei Pokemon.
12. Il metavarco
Strange days have found us
Strange days have tracked us down
They're going to destroy
Our casual joys
We shall go on playing or find a new town.
Quando ritorno al varco sono quasi le tre del pomeriggio. Nelle ore precedenti ho segnalato ad alcuni contatti del Coordinamento No GP, via via con maggiore urgenza, l'annuncio dell'arrivo di Montesano e il serio rischio che la sua presenza danneggi tutta la mobilitazione. Come scrive in quelle ore Wu Ming 1,
«speriamo che il coordinamento e i portuali non gli consentano di fare il suo consueto spettacolino, e tengano la linea "no ai personaggi mediatici che vengono qui a strumentalizzare la nostra lotta per farsi pubblicità". Montesano è un soggetto screditatissimo, il suo "magic touch" a rovescio infliggerebbe alla lotta un danno d'immagine peggiore di qualunque demonizzazione (perché la messa in ridicolo è ben peggio della demonizzazione)».
Quando arrivo inizio a capire il motivo per il quale nessuno mi ha risposto.
Superata la zona d'ombra sotto il cavalcavia mi rendo conto che c'è una strana luce diffusa su tutto il varco. Artificiale, come quella di un enorme set cinematografico. La giornata è splendida, ma questa luce non ha nulla di naturale. La folla, immensa, sembra un fotomosaico dai colori ipersaturi, e così il cielo, e gli ingressi del porto che sembrano molto più ampi di come li ricordavo e costellati di fari enormi e telecamere, al punto che a malapena intravedo il mare.
Il flusso di persone che entrano è enorme e rumoroso. Riconosco dialetti e accenti da tutta Italia, vedo agitare bandiere col leone di San Marco, cartelli che ringraziano e inneggiano ai «portuali di Trieste», altri con scritte tipo «Trieste chiama, Molise risponde!» e grandi gonfaloni che ritraggono la Madonna o San Giorgio. Vedo intere compagnie di persone con scatoloni di roba da mangiare e casse di vino e di birra. Si aggirano personaggi sempre più strampalati.
Una figura enorme fende la folla, in piedi su un overboard su cui stanno accucciati anche tre volpini, reggendo un selfie stick e filmando sé stesso e ciò che lo circonda. Quando mi sfiora e ce l'ho davanti mi accorgo che è Jeeg Robot.
Tento di considerare ciò che ho appena visto ma sento grida, gente che si agita. A pochi metri da me si è formato un capannello di persone al centro del quale vedo una giornalista. In mano agita un microfono che però è un'iguana viva, e molto indispettita sibila risposte a qualcuno dei dimostranti che la apostrofano formando un cerchio attorno a lei e al cameraman, che a sua volta tenta di convincere un tizio con un cartello con scritto «Longobucco c'è!» a non impallargli l'inquadratura. La telecamera, ha il logo del Tg3, però è uno strano intrico di organi e frattaglie pulsanti, come in Existenz di Cronenberg. A urlare più degli altri verso la giornalista è un nano dal labbro leporino e gli occhietti da faina, che sembra un cartone animato e sbraita come un cartone animato. - Dovete dire la verità!!! Vogliamo la verità!!! - e poi seguito da molti altri, tutti a gridare: - Veritah! Veritah!
Il capannello si fa affollato e circonda sempre di più la giornalista e il cameraman. Questo fa per abbassare la telecamera pulsante, sconfortato, quando si vede arrivare un gruppo di portuali in divisa da lavoro. Li guida Puzzer. O perlomeno sono certo che sia lui, però si è trasformato: è il Ciccio di nonna Papera. Porta la divisa fluorescente e il cappellino grigio, ma è proprio lui, il personaggio Disney, solo in carne e ossa e con l'aria meno tonta.
Sono sbalordito. Mi porto le mani agli occhi per stropicciarli, ma quando le allontano vedo una manciata di pixel scendere come coriandoli. A posto, penso.
Puzzer raggiunge la giornalista, fendendo due ali di folla che lo acclamano, che lo toccano, qualcuno lo supplica, c'è una tizia che si mette a piangere. Lui sorride e saluta tutti col becco da papero, stringe mani, poi finalmente avvicina la giornalista che, quando lo vede, smette di imprecare verso il tizio che la sta angariando. Ciccio Puzzer e lei parlottano un attimo, poi si mettono in posa per un'intervista che dura poco, perché comunque un bel po' di gente continua a inveire. Lui allora prende un megafono e si rivolge alla folla che tace e ascolta.
- Allora, benvenuti a tutti. Noi portuali di Trieste vogliamo ringraziare tutte le persone che sono venute fin qua per sostenere la nostra lotta, che è la lotta di tutti! - Applausi e grida di approvazione. - Sono giorni difficili e faticosi, ma siamo decisi ad andare avanti. - Altri applausi. - Voglio poi dirvi una cosa sui nostri amici della stampa... - Parte una salva di fischi. - Aspettate, aspettate, devo dirvi una cosa importante... - La folla ascolta di nuovo. - Anche i giornalisti sono lavoratori come noi, e anche se non riportano sempre fedelmente le cose che diciamo, - e qui si gira verso la giornalista e le strizza l'occhio - è giusto che rispettiamo il loro lavoro. Quindi, amici, vi chiedo di non ostacolarli.
Una parte della folla applaude. Molti rumoreggiano. Poi Ciccio Puzzer riprende a parlare.
- E infine voglio dirvi ancora una cosa, che è la più importante: noi non molliamo! E quindi facciamo sentire il nostro canto! E attacca a cantare, «La-gen-te-co-me-noi-non-mol-la-maaai». Il coro però non sembra quello solito, la melodia è in tonalità minore e molto più lenta. E rallenta ancora di più quando la folla lo riprende, come Hal 9000 quando viene disattivato un modulo alla volta, finché il coro diventa un enorme borbottio di vocali. La giornalista fa una smorfia, come se fosse stata interrotta mentre diceva qualcosa di importante, vedo chiaramente il suo volto pixelarsi, poi di colpo lei e il cameraman si smaterializzano come nel teletrasporto di Star Trek.
Mi muovo, vorrei arrivare al gazebo degli autorganizzati, un caffè mi farebbe bene, magari corretto. Ma mi trovo incastrato tra centinaia di persone in cerchio che suonano tamburi e bonghi, e gente nel mezzo che balla come fosse in trance. Devio da un'altra parte e mi imbatto in un altro cerchio. Questi sono tutti vestiti di bianco e si tengono per mano facendo un lungo e profondo Ohm. Tra di loro c'è questo ex psichiatra, Bertali, che ho intravisto nelle assemblee del coordinamento, dove incasina le discussioni parlando di metodo gandhiano nella lotta, e non si capisce dove voglia andare a parare con tutti quei discorsi sull'armonia e un certo «sacro mantra Wuhan». Capisco che è lui, ma lo ricordavo con una lunga barba da santone, mentre ora ha le fattezze del direttore megagalattico di Ugo Fantozzi, alto, secco, elegantissimo, stempiato. E luminoso, circonfuso di luce in questo circo confuso.
Mentre pronuncia l'ohm Bertali tiene gli occhi chiusi e una mano sulla fronte di un tizio più basso di lui che lo fissa con gli occhi spalancati ma del tutto inespressivi. È Ugo Rossi, quello che in Consiglio comunale nei prossimi cinque anni terrà alto il livello del dibattito, così gli altri consiglieri e la cittadinanza tutta non sentiranno la mancanza di Tuiach. Anche Rossi è un po' diverso, sembra l'agente Smith di Matrix. Il signor Rossi e Mr. Smith. Almeno questo ha senso, penso.
Faccio ancora qualche passo, inizio a non poterne più di quel circo. Passo accanto a una decina di persone inginocchiate. Pregano, anche loro tenendosi per mano, c'è anche Tuiach, col megafono a tracolla e il ritratto della Madonna in braccio, però è un gorilla e indossa un tutù rosa.
Basta, me ne vado, penso. Ma in quel momento vedo Oscar, un giovane antifascista, uno bravo che sta anche nel coordinamento. Si guarda attorno, come cercando qualcuno, calmo. Ha le fattezze di uno degli Hanson Brothers, quelli della squadra di hockey di Paul Newman in Colpo secco. Lo raggiungo. C'è un casino infernale, musica e tamburi e salmodie e gente che canta in visibilio. Parliamo urlando, entrambi osservando quello che capita intorno.
- Che cazzo sta succedendo? - grido.
- Metaverso! - mi risponde - Realtà diminuita! E virtualità aumentata!
- E che cazzo vuol dire?
- Vuol dire - grida - decine di pullman, e centinaia di macchine da
ogni angolo d'Italia! Gente di ogni tipo che si è fatta anche mille
chilometri per venire qua! Carichi di speranza, di roba da mangiare e di
cazzate sentite in televisione, o su Byoblu, o lette su Facebook, o
nelle chat su Telegram e Whatsapp! Due anni di terrorismo virocentrico e
decreti governativi! E due anni di fantasie di complotto che danno la
colpa di tutto ai nazisti rettiliani ebrei! E poi giornalisti e
telecamere da tutta Europa! Fanno domande idiote! Tipo perché lei non si
vaccina, ha visto com'è alto l'RT in provincia di Campobasso... Oppure
domande assurde sulla città! Uno mi ha chiesto dove poteva trovare il
pezzo di muro rimasto su dopo l'89!
- Ok! Bel casino! È per questo che hai la faccia tutta pixelata? - dico.
- Credo di sì! Anche tu ce l'hai!
Mi passo una mano sul volto e di nuovo faccio i coriandoli.
- Ma i compagni? - gli chiedo.
- Eh, li sto cercando! Dobbiamo fare una riunione! E presto! Anche perché il coordinamento è scomparso!
- In che senso? Sono andati via tutti?
- No! Il coordinamento nel metaverso sparisce! Ha deciso dall'inizio di
non avere portavoce! E nemmeno pagine Facebook! Solo un sito internet
statico! Si stava appena parlando di aprire un canale Telegram! Ma poi è
partita 'sta baraonda! Siamo rimasti schiacciati tra gli antivaccinisti
più scoppiati e Ciccio Puzzer, che è diventato una star della Disney e
da ieri sera se gli chiedi qualcosa fa il vago o non ti parla proprio!
- Ma qualche intervista è passata, ho visto Sabina!
- Sì, ma diceva cose troppo serie! Il metaverso prima seleziona, poi
estrae, quindi modera! Poi se insisti trolla o ti cancella!
- Ok, ma almeno così il coordinamento si salva! - grido. - Giusto?
- Speriamo! È da vedere cosa resta quando finisce questo casino! E come finisce!
- E Montesano?
- Ah! L'ho letto il tuo messaggio! - urla ironico, - se vuoi puoi aggiungere anche Pappalardo alla galleria dei freaks!
- Pappalardo? Ricominciamo? Ma non era morto?
- L'altro! - urla con un ghigno - Lo sbirro vestito da pagliaccio! È
arrivato mezz'ora fa! Per fortuna Puzzer come con Paragone non l'ha
fatto parlare dal palco. In compenso tutti i giornalisti si accalcano
per fargli dire qualche stronzata!
«Anche i fioi, diocàn!»
Un
giocoliere in monociclo sfreccia tra di noi, seguito da una torma di
ragazzini volanti con la faccia di Puzzer. Oscar fa una smorfia
schivandosi appena in tempo dall'ultimo del gruppo che per poco non gli
piomba addosso.
- Anche i fioi, diocàn! Non glieli dovrebbero dare i
telefonini così presto! - esclama spazzolando i pixel caduti sulla
divisa dei Charlestown Chiefs.
- Senti un po'! - Grido - Ma io qua nel metaverso a chi assomiglio?
Mi guarda per un attimo, e subito distoglie lo sguardo, imbarazzato.
- Be'... Pare che ognuno di noi sia un avatar... - dice abbassando la voce, lo sento a malapena.
- Come? - grido.
- Un avatar! Siamo tutti avatar presi nel metaverso! Non mi è chiaro
del tutto come funziona! Ma da quanto ho capito ha a che vedere con le
nostre raffigurazioni in rete! Pezzi di biografia e informazioni
estratte a cazzo, magari da altri o da noi stessi! Tipo quando ti
taggano in un post o scrivi uno stato e ci metti una foto o un'immagine!
E poi rimescolate con figure pop, o mitologiche, o dell'immaginario
collettivo.
- Ah, ok, ha senso! E quindi qual è il mio avatar?
- Sei sicuro di volerlo sapere?
Lo guardo per fargli capire di non farla tanto lunga.
- Ok! Se proprio ci tieni! Sei Peter Pan! Ma in divisa da SS! E hai una svastica tatuata in fronte!
Mi porto le mani sulla faccia. - Quella stronz...
L'imprecazione mi muore tra le labbra perché in quel momento un
movimento della folla ci fa voltare verso il cavalcavia di accesso al
varco, che è una ragnatela piena di celerini che giocano a dondolarsi,
cadendo a uno a uno e poi risalendo, mentre cantano Un elefante si dondolava...
Da quella direzione marcia una falange di persone che circonda e riprende coi telefonini un tizio che cammina veloce, e ride come un attore consumato, perché è un attore più che consumato, praticamente esausto. Lui a sua volta si riprende col telefonino e lo ruota dal suo volto a quelli della folla a cui sta andando incontro e che man mano che lui si avvicina si spalanca per farlo passare e intanto sfodera i telefonini e inizia a riprendere a sua volta. Lui cammina veloce verso gli ingressi del porto, perché qualcuno deve averglielo detto che là c'è un palco e un microfono, e qualcuno deve anche avergli detto che glieli farà usare. E la gente tutto attorno lo filma e si filma e grida Enrico! Enrico! E pure quelli coi tamburi fanno un gioco di prestigio notevole, perché ogni tamburo di colpo diventa un telefonino e con quello iniziano a correre dietro a Montesano pure loro, riprendendolo e gridando Enrico! Enrico! Enrico!
E devo dire che fa una certa impressione vedere che pure certi santoni vestiti di bianco hanno smesso quell'aria da respiriani stralunati e fumatori di semi cosmici, per tirare fuori pure loro i cazzo di telefonini e inseguire questo ex mediocre interprete della più scarsa commedia all'italiana, che ovviamente è l'avatar di sé stesso, gridando Enrico! Enrico! Enrico!
Mentre mi allontano dalla calca - mi manca solo di finire immortalato con questo qua! -, ripenso alle parole di Wu Ming 1. Magic touch. Magic touch a rovescio. Magic touch. A rovescio. Sopra e sotto il ponte.
Una
troupe televisiva ritardataria arranca verso l'attrazione. E vedo di
nuovo il troll dal labbro leporino che si fionda da un lato correndo
sulle gambette stecche per intercettarli.
- Dovete dire la verità!!! Veritah! Veritah!.
Gli vado incontro mentre rincorre la troupe, mi paro davanti a lui. - Tu! - gli grido. - Da dove vieni?
- Rimini! - risponde pronto.
- E qui che ci fai? Perché non sei a Rimini a protestare? - dico.
- Sono il capo dei forconi di Rimini! Sono qui perché devo parlare coi portuali, con Puzzer!
- E ci hai parlato con Puzzer?
- No, non ancora - risponde un po' indeciso ora.
- Perché tormenti i giornalisti? Non l'hai sentito Puzzer che diceva di lasciarli lavorare?.
- Si, ma...
- "Ma" un par di palle, tu sei di Rimini e qui siamo a Trieste, e se i
triestini ti dicono di non rompere i coglioni tu fai come ti dicono o te
ne torni a Rimini.
- Ma non dicono la verità! - dice con un tono
che diventa così acuto da essere quasi lamentoso. - I giornalisti non
dicono la veritàahh!!!
Lo afferro per il giubbotto: - Razza di troll di merda! Quale sarebbe la verità che non dicono?
È paonazzo. Terrorizzato. Mi guarda senza fiato. - Qual è questa cazzo di verità che io non so? - grido - Me lo vuoi dire?
Non fiata, trema. Io alzo lo sguardo verso il molo, vedo il mare ora,
scintillare nella luce del pomeriggio. Di colpo mi assalgono decine di
ricordi di vent'anni prima, le giornate e le notti passate su quel molo,
tra i container e le gru, tra i rumori del lavoro e quella pace del
mare tutto attorno che solo i portuali e i marinai conoscono. Mi salgono
lacrime agli occhi. Guardo il troll, che ora sembra solo un tizio un
po' basso e spaventatissimo. Lo lascio andare, si allontana rapido.
Mi scuoto, e siamo di nuovo sul ponte che è di nuovo il varco che conosco e dove tutti ci troviamo. È una bella giornata, c'è solo troppa gente, troppe aspettative e qualche testa di cazzo che fa il furbo. E nessuno era preparato a tutto questo.
13. Giravolte e scherzi della sovraesposizione
In questa vicenda la contesa tra metaverso e realtà fisica, o tra Spettacolo ed Evento se preferite, è destinata a durare, con il primo dei due elementi che tenterà di risolvere la questione ricorrendo alla forza bruta e ai colpi più bassi dei suoi più servili alleati in campo avverso. Ma tempo al tempo.
Vale la pena ricordare che Enrico Montesano è uno che si è ripassato tutto l'arco partitico italiano: venendo dal PSI di Craxi, viene eletto europarlamentare col PDS, poi vicino ad Alleanza Nazionale e a Francesco Storace, dopo ancora ha dichiarato di votare 5 Stelle, per i quali ha partecipato anche all'iniziativa «La notte dell'onestà», prima di finire a inserire nei suoi spettacoli canzoni del fondatore di Casapound, Iannone, e più di recente facendosi ritrarre mentre abbraccia Matteo Salvini di cui «ammira» le posizioni sull'immigrazione. Soprattutto Montesano ora è uno dei più celebri propalatori di cazzate antivacciniste in circolazione.
Per quale ragione Stefano Puzzer abbia regalato una passerella a un personaggio simile, in una piazza operaia, affollata e combattiva, soprattutto piena di rischi per tutti, e che quindi di tutto ha bisogno tranne che di personaggi screditati, non riesco nemmeno a considerarlo un mistero. Perché è un film ormai visto tante volte da non meritare più di due righe. Film di cui Puzzer stesso ha avuto una miserabile anteprima tra le stesse fila dei suoi colleghi, con la penosa vicenda di Fabio Tuiach e prima ancora con i saltimbanchi del milieu neoindipendentista. (Disclaimer: ritenersi, o persino essere davvero, più svegli di qualcun altro in questo campionato non conta un cazzo, perché alla fine non sei tu a decidere e le regole le fanno e le cambiano altri).
Ma nelle stesse ore in cui si presta a questo teatrino, Puzzer deve fare i conti con questioni molto più terra terra, e decisamente più urgenti della remota possibilità di ritagliarsi un posticino nel fetente circo politico-televisivo italiano.
Probabilmente - ma lo ipotizzo soltanto - in quelle ore è alle prese con telefonate, colloqui e discussioni nelle quali parla con un bel po' di gente, dai vertici del porto a quelli della Questura e della Prefettura, dai componenti del direttivo del suo sindacato, il Clpt, a certi loschi figuri vicini a organizzazioni ultracattoliche e di estrema destra del Veneto.
Telefonate, colloqui e discussioni nelle quali risuonano minacce tremende, che già nei giorni scorsi sembra siano state formulate con visite poliziesche notturne a casa Puzzer. E in cui si lamenta l'arrivo imprevisto - ma non proprio imprevedibile - di migliaia e migliaia di persone stufe, per decine di ragioni diverse, di essere del tutto escluse da venti mesi, da ogni decisione che riguarda le proprie vite. E di come quel presidio sia in parte sfuggito di mano a chi l'ha lanciato, come a chi lo ha sostenuto dall'inizio.
Telefonate, colloqui e discussioni dalle quali Puzzer esclude le uniche persone che potrebbero aiutarlo a trovare una soluzione dignitosa, onesta e soprattutto davvero utile alla lotta intrapresa: le persone che con più consapevolezza e responsabilità hanno accolto il suo invito a bloccare il porto di Trieste, sia dentro il Coordinamento No greenpass cittadino, come tra gli stessi portuali. Persone alle quali sarebbe sufficiente spiegare, con chiarezza e onestà, che le cose hanno preso una piega pericolosa per tutti, e che quindi tutti assieme, davvero uniti, va trovata una via d'uscita.
Ma Puzzer a quel punto deve essere preso tra l'enorme rilascio di endorfine che la sovraesposizione mediatica gli procura e l'umana paura delle minacce che sta ricevendo dalle autorità. E forse - ipotizzo ancora, in base a quello che sento e vedo -, decide di affidarsi a queste ultime, che gli consigliano altre vie d'uscita, magari le stesse proposte da quei loschi figuri veneti.
Verso le sette di sera di quel sabato, Zeno D'Agostino, presidente dell'Autorità portuale, compare su tutti i notiziari nazionali per dire che il giorno successivo andrà dal prefetto di Trieste a chiedere lo sgombero del presidio al varco 4. A dirla tutta non usa nemmeno la parola «presidio», ma anche lui dice «circo», però nell'accezione spregiativa e di superiorità che è la cifra dominante della narrazione mediatica su questa mobilitazione. Che il circo lo cerca e lo crea.
Più o meno negli stessi minuti Puzzer convoca un altro comizio/conferenza stampa, per la seconda volta senza dire nulla a chicchessia del Coordinamento No greenpass come a molti portuali, e fa uno degli interventi più sgangherati e opachi tra i molti interventi sgangherati e opachi che pronuncerà nei giorni successivi.
Parla con grande enfasi di un «coordinamento nazionale» al quale «i portuali di Trieste» stanno lavorando, assieme agli «altri porti italiani», ai vigili del fuoco e anche ai rappresentanti delle forze dell'ordine contrari al greenpass. Un coordinamento che andrà a Roma il 30 ottobre a parlare alla Camera e al Senato, persino a incontrare il governo, per manifestare la totale contrarietà al decreto e chiederne il ritiro. E mentre, sfidando il ridicolo, ricama sul fatto che non è nelle piazze che cambiano le cose, ma «negli uffici», e presenta la gita a Roma come l'uovo di Colombo che porterà «il popolo» a mettere il governo con le spalle al muro, infila riferimenti alla mobilitazione al varco, accennando al «grande segnale» che è stato dato, persino a una «grande vittoria» già ottenuta, suggerendo infine che restare là non ha più molto senso, che stasera sarà un momento di grande festa per il risultato raggiunto, che domani arriverà ancora altra gente che verrà accolta, e poi in serata inizierà questo nuovo percorso che porterà la lotta a Roma il 30 ottobre. «Perché noi non molliamo!».
Il coro «la gente come noi non molla mai», lanciato non appena finito di dire queste cose è grottesco a livelli quasi insostenibili.
Com'era prevedibile, ma evidentemente non è stato previsto, la piazza non se la beve. Prima di tutto perché la maggior parte dei presenti, che ad andarsene non ci pensa proprio, non ha nemmeno sentito il discorso - una costante di questa mobilitazione è che mai i mezzi audio saranno all'altezza delle dimensioni. E poi perché già dopo pochi minuti, nei capannelli che si formano, chi ha mangiato la foglia spiega cosa sta succedendo a chi ci arriva dopo.
Rompendo almeno in parte l'incantesimo del metaverso, anche il Coordinamento finalmente si riunisce. Un'assemblea fiume, incasinata dalla marea di persone venute da fuori, nella quale chi ci sta dall'inizio non può fare altro che denunciare il modo in cui Puzzer si è preso la scena, tagliando fuori tutti gli altri, alla faccia dei proclami all'unità e alla fratellanza, finendo persino per dichiarare la smobilitazione di un presidio che, lui da solo e per primo, aveva proposto, proclamando che sarebbe continuato «a oltranza fino al ritiro del decreto green pass». Puzzer alla fine si presenta pure lui all'assemblea. E di nuovo, nella maniera ambigua e melliflua che ha ormai adottato, tenta di convincere tutti di quale opportunità sia quella che si è presentata.
Ma stavolta non attacca. Il Coordinamento ha molti limiti, ma un grande merito che, fosse anche l'unico, ha fatto da collante e da garanzia di reciproca fiducia tra tutte le sue componenti: crede fermamente che da questa lotta si esce solo lottando, senza dare per certa la vittoria con proclami da imbonitori, consapevoli di essere partiti da una piazza e che solo in una piazza si potrà finire, comunque vada. Inoltre sa che, dal 15 ottobre, milioni di persone sono costrette a pagare per lavorare e studiare e vivere, oppure relegate ai margini della società, magari senza stipendio. Ed è questo che viene detto a Puzzer, ricordandogli di quando lui stesso si era presentato a un'assemblea, chiedendo al Coordinamento di mobilitarsi al porto, assieme ai portuali e non come ruota di scorta.
Quella giornata surreale finisce con l'ennesimo voltafaccia del suo volto più noto che, di nuovo davanti ai cancelli, spiega al microfono che le sue parole sono state male interpretate, soprattutto dai media - che stavolta davvero non hanno colpe. E che lo stesso vale per il comunicato emesso dal Clpt che, nero su bianco, le riportava. Ora afferma di nuovo che il presidio continua, a oltranza, perché qua nessuno molla niente.
Ma stavolta il coro non lo lancia. Fosse mai gli sia venuto il dubbio che porti un po' sfiga?
14. Una difficile ripartenza
Non ho assistito all'assemblea che la sera di sabato 16 ha ribaltato la decisione unilaterale del Clpt di smobilitare il blocco al varco 4. La calata nel metaverso che qui ho raccontato in forma di fiction - la sola che forse può sottrarre la realtà dei fatti alle manipolazioni di un'impossibile "imparzialità dell'informazione" - mi ha letteralmente sconfortato. In quelle ore per la prima volta mi sono detto, dandomi anche un po' del mona, «è tutto sbagliato».
Me ne sono andato persino prima dell'annuncio della smobilitazione, illudendomi di sfuggire a quella che Wu Ming 1, riferendosi all'arrivo di Montesano, ha perfettamente definito come «una cappa plumbea di discredito» su una mobilitazione che fino a quel giorno, con tutte le sue contraddizioni, si era presentata con i tratti di quanto di più simile al movimento No Tav avessi visto finora. Con la differenza, importante e certo non unica, che questo movimento non ha trent'anni di lotta e di esperienza alle spalle.
Sono comunque riuscito a seguire quanto è stato detto, pubblicamente e non solo, perché la pervasività del metaverso - in realtà, di ciò che spinge per essere tale - è ormai totale, al punto da far pensare che, ormai, qualsiasi lotta e conflitto sociale deve capire come sottrarvisi o utilizzarla senza esserne fagocitata. Nelle varie dirette in rete ho sentito le parole di Puzzer e persino intuito le reazioni di molti. Ma in quei giorni ho anche capito che affidarsi alla mediazione del punto di vista altrui è molto rischioso. E ne avrò diversi esempi nelle giornate seguenti, quando la mobilitazione, non più compressa al varco, assumerà dislocazioni multiple in diverse occasioni.
Anche la mattina di domenica 17 ottobre sono al varco sul presto. Trovo diverse centinaia di persone, un maggiore spiegamento di forze dell'ordine, e un flusso di persone che inizia a riprendere e finirà di nuovo per contarne migliaia. Il ponte inizia a rianimarsi nei capannelli dei tre punti di ristoro, dove riesco a parlare con un po' di persone e capire una volta di più quanto sia complessa la realtà delle cose. Molti vengono da fuori e, secondo la stampa e le autorità, questo dimostrerebbe che i «no vax» avrebbero sottratto la mobilitazione ai portuali e ai triestini che erano scesi in piazza nelle settimane scorse.
Anch'io da principio ero portato a credere che quelli arrivati da altre regioni e dal Friuli fossero soprattutto antivaccinisti, soprattutto di area cattolica. E ieri in effetti le presenze più organizzate, quelle arrivate in pullman dal Veneto, in parte lo confermavano. Ma ora, parlando con un po' di questa gente nei capannelli che si formano, mi rendo conto che la faccenda è più complessa, perché in realtà la maggioranza sono lavoratrici e lavoratori che hanno raccolto l'indicazione data dai portuali: tamponi gratis per tutti o per nessuno, e in quel caso ritiro del GP.
Parlo anche con uno degli attivisti del Coordinamento che era all'assemblea. Mi racconta com'è andata.
- Di tutte le cazzate che ha fatto Stefano ieri, quella che non capirò mai è perché si sia presentato all'assemblea convinto che ci bevessimo la storiella della gita a Roma coi sindacati di polizia. Aveva finalmente l'occasione di fare la cosa più giusta e ovvia, rimediando anche a come si era comportato nei giorni scorsi, facendo sempre di testa sua e senza confrontarsi col Coordinamento. Se avesse spiegato che sui portuali, e sul Clpt in particolare, si stanno riversando pressioni enormi e che tenere il blocco rischia di far saltare tutto, molti avrebbero capito. E si sarebbe partiti da questo dato di consapevolezza condiviso. Perché nessuno di noi vuole che qualcuno rischi più di altri. E loro qui oltre alle botte e alle denunce, rischiano anche il posto di lavoro. Questo è chiaro alla maggioranza del Coordinamento.
Capisco bene la difficoltà della situazione, però gli chiedo perché allora non sia stato il Coordinamento a proporre un'altra via d'uscita. Ormai è certo che domani o martedì al massimo arriverà lo sgombero, e le conseguenze sono imprevedibili.
- Siamo venuti qui perché il Clpt l'ha proposto, e Puzzer ha detto «a oltranza». Non ce lo siamo inventato noi! E lavoratori di altre aziende hanno accettato l'invito e scommesso su questa cosa, mettendoci anche il culo proprio. Senza nemmeno un sindacato che li tuteli.
Mentre parliamo il varco ha ripreso a riempirsi di brutto, di nuovo nell'ordine delle migliaia, e di nuovo riprendono i tamburi che sono ormai una costante della mobilitazione.
- Poi quando siamo arrivati Stefano ha iniziato a gestire tutto da solo. Ma un conto è la responsabilità del fatto di essere a casa propria, un altro dire «venite e lottiamo tutti assieme» e poi metterti a fare la rockstar, che è anche il meno, ma soprattutto decidendo tutto di testa tua. E alimentando tra l'altro questa differenza illogica e sbagliata tra i portuali e tutti gli altri, che proprio i portuali rischiano di pagare più di tutti.
Quella mattina Puzzer comunica di essersi dimesso dalla carica di presidente del Clpt, contro la volontà degli altri. Poco prima sul suo profilo Facebook ha postato un messaggio un po' criptico, nel quale si assume tutta la responsabilità di quanto successo il giorno prima, affermando che è solo colpa sua e scusandosi con tutti. Il successivo comunicato del Clpt conferma le dimissioni e, ringraziandolo per il lavoro svolto, chiarisce anche che la sigla sindacale si ritira dal presidio, al quale i lavoratori portuali ora aderiranno a titolo personale. Come del resto stanno facendo anche tutte le lavoratrici e i lavoratori di altre aziende.
A rimettere queste persone al centro della mobilitazione è una conferenza stampa del Coordinamento No GP che, simbolicamente, si tiene non ai cancelli del porto, ma presso il gazebo degli autorganizzati. Qui a metà pomeriggio viene letto un comunicato che ribadisce i contenuti della lotta, lotta che «ad oltranza, per ora continua al Varco 4 del Porto di Trieste, giorno e notte». Viene riportato l'elenco delle realtà lavorative presenti, che sono molte, più di quando è iniziato il blocco. Queste lavoratrici e lavoratori affermano di assumersi collettivamente la responsabilità della mobilitazione a oltranza assieme coi portuali.
Pochi minuti dopo la scena si sposta nuovamente ai cancelli, dove Puzzer prende di nuovo la parola. Prima di tutto per ribadire quanto già scritto nei comunicati e sui social. Poi per fare un comizio che in tutta sincerità faccio fatica a seguire, perché di fatto non dice nulla di sostanziale, e per gli obliqui messaggi che lancia parlando di «persone che vogliono dividere i portuali» e spargono voci sul fatto che sarebbero divisi.
C'è un atmosfera strana, ho l'impressione che i portuali siano molti di meno dei giorni precedenti, e qualcuno di quelli che ci sono lo dice chiaro che c'è della rabbia per come sono state gestite le cose. Inoltre intorno a Puzzer si muovono personaggi strani, che col porto non sembrano avere a che fare.
Mentre ascolto penso che il problema grosso che hanno tutti è l'aver mancato la scommessa più importante, quella che questa mobilitazione prendesse piede nel resto del paese, mutuando le parole d'ordine che l'hanno resa così forte proprio qui, nella mia città. Non è successo, non finora almeno. Per quanto se ne sa, le altre piazze italiane sono restate tutte in mano alle componenti antivacciniste, spesso quelle più irrazionali e quindi esposte alla facile riprovazione. E hanno così lasciato spazi di manovra enormi ai fascisti che le usano per le mosse in cui sono impegnati i Fiore e i Castellino e, soprattutto, i Di Stefano, in vista degli spazi che apre la cooptazione della Lega, e di fatto anche di Fratelli d'Italia, nel "grande nulla" dell'Unità Nazionale che la gestione pandemica ci regala.
Poche le eccezioni. Milano la più opaca e difficilmente interpretabile, con cortei molto partecipati e incazzati. Qui il Corriere della Sera è riuscito nella paradossale impresa di imbastire la solita gnagnera degli opposti estremismi, mettendo assieme i fascistoni dei Dodici Raggi con la presenza nel corteo di un ex Br, salvo poi certificare l'imprevedibilità e l'indecifrabilità di questa ondata di proteste.
E poi Genova, dove i portuali si sono mossi da par loro, bloccando a loro volta il porto e ottenendo infine i tamponi gratuiti. Dispiace che una parte vorrà poi prendere le distanze da Trieste, pur nel legittimo sconcerto per certe mosse di Puzzer e di certi "compari" di strada che finirà per scegliersi, ma dimenticando che, in fondo, è lui stesso e il Clpt ad aver intrapreso questa lotta prima di tutto rifiutando i tamponi gratuiti solo per i portuali, e chiedendo che siano concessi a tutte le categorie di lavoratori.
Dubito che le migliaia di persone presenti al varco anche questa domenica pomeriggio abbiano chiaro cosa significano tutti quei proclami, le due conferenze stampa tenute in punti diversi del ponte, le dimissioni di Puzzer dal Clpt e soprattutto quelle assunzioni di responsabilità collettiva.
Tutte quelle persone continuano però a condividere un bisogno e una speranza. Che in realtà è una mole enorme di bisogni e di speranze che sono stati rinchiusi, controllati, normati e repressi con ogni mezzo. Relegando ognuno nella propria bolla social, e infine nella propria solitudine, in nome di un malinteso senso di comunità. Che forse, a guardar bene, di solidale ha ben poco, mentre i tratti della comunità nazionale interclassista li mostra tutti.
Il green pass è solo la punta dell'iceberg. E quel che ho visto emergere faticosamente al varco 4 è stato ben altro che l'espressione dell'idea di libertà, tipicamente neoliberista, per la quale l'individuo ha il diritto di fare ciò che vuole. Ho percepito di gran lunga più spesso la voglia di liberarsi assieme dalla iattura del lavoro per un padrone, che pretende che tu continui a produrre a qualsiasi costo e condizione, per di più ribaltando su di te anche il rischio di una pandemia. Altro che egoismo e individualità, qui ho visto dopo tanto tempo le crisalidi di nuove singolarità cooperanti.
I padroni del vapore, e del gas e del carbone, con cui fanno navigare i loro container l'hanno capito. E hanno capito che alla lunga nemmeno il più raffinato metaverso sarà sufficiente a farli stare tranquilli. Per questo domattina passeranno alle maniere forti, come loro sanno fare.
15. Che la vadi ben, o che la vadi mal...
Quando i camion con i cannoni ad acqua, decine di blindati e centinaia di agenti in tenuta antisommossa compaiono al varco 4, provenendo dall'interno del porto franco di Trieste, la folla che staziona sul ponte è decisamente numerosa per un lunedì mattina. Numerosa e una volta ancora sospesa, anche se meno stranita ormai.
Lo sgombero ha una sua logica interna ferrea e inappellabile. I portuali, con il loro rispetto sacrosanto per l'altezza, che deriva dal riconoscere il pericolo del vuoto di una stiva, la colgono perfettamente da giorni. Siamo su un ponte, ovvero una struttura che ha solo due vie di accesso. Se una è sbarrata resta una sola via di fuga. Ai lati, il vuoto. A dirla tutta, a metà del varco parte una delle rampe che immettono nella superstrada. Ma imboccarla, magari inseguiti dalla celere o dai blindati, sarebbe peggio che ficcarsi in un vicolo cieco.
Insomma, motivi di preoccupazione per quanto sta per accadere non ne mancano. E i portuali, che sono a casa loro e quel ponte lo conoscono bene, ne sentono tutta la responsabilità. E anche quando, solo in parte e per pochi minuti, si troveranno a recitare la parte di chi, in cordone, dà le spalle alla polizia e la fronte agli altri manifestanti, non mi sentirò di biasimarli.
È per questa responsabilità che quando i camion con gli idranti superano gli ingressi e si affacciano sul varco, loro sono tutti là davanti, di nuovo numerosi, con il resto della gente appena un po' più indietro, come loro hanno chiesto. E sono loro quindi a prendere i primi getti d'acqua, che da principio schizzano l'aria, tentando di dissuadere dal restare con una pioggia quasi innocua, ma subito si abbassano, iniziando a colpire la gente. Ed è ancora un portuale che prende un getto dritto nel petto, da pochi metri, che quasi lo tramortisce e costringe i suoi compagni a portarlo via a braccia, e quindi caricarlo su un'ambulanza.
C'è già qui un primo dato di realtà: lunedì 18 ottobre il governo
Draghi spazza via la lotta che da settimane aveva portato migliaia di
persone a protestare contro il green pass nelle strade di Trieste e
davanti al porto per diverse settimane. Lo fa usando cannoni ad acqua,
manganelli, scudi e lacrimogeni contro i corpi di migliaia di persone
riunite in un picchetto operaio. Lo fa utilizzando anche un dispositivo
mediatico che in queste settimane ha ripetuto all'infinito, perlopiù
unanime, che questa è una falsa lotta su un falso problema, negando che
quanto stava accadendo avesse a che fare con parole come «sciopero» e
«diritto al lavoro», e scavando tra tutto ciò che questa piazza poteva
fornire per puntare i fari solo sugli aspetti che la raffiguravano come
un coacervo di fanatici fascistoidi e irrazionali che non «credono nella
scienza».
Lo sgombero ha una sua logica interna ferrea e inappellabile: sgomberare il varco principale del porto di Trieste per fare in modo che la produzione riprenda a pieno ritmo, e l'anomalia di questa lotta abbia fine una volta per tutte.
Solo per cacciare tutta quella gente dal varco però ci vogliono almeno due ore e mezza. Durante le quali si vede gente che prega, che bestemmia, che canta pace amore e libertà, che si prende manganellate e colpi di scudo senza battere ciglio, che rimprovera altra gente di provocare perché si copre il volto, che si copre il volto per farsi vedere, che fa l'ohm, che suona i bonghi, che chiede ai celerini chi glielo fa fare, che denuncia la violazione del Territorio Libero di Trieste, che limona duro davanti al cordone di guardie che avanza, che ostacola l'avanzata delle guardie, che tenta di convincerle ad andarsene, che prova a fermarle a mani nude...
E si vedono i portuali, a casa loro, fare da cuscinetto tra gli altri dimostranti e la polizia, e altri dimostranti dire ai portuali che si parte e si torna tutti assieme, e finché resteranno, resteranno anche loro.
E poi c'è un momento in cui tutti sembrano condividere una consapevolezza collettiva, forse stanchi della parte che ognuno è costretto a interpretare, perché in quei giorni, nel bene e nel male, è successo qualcosa. E solo gli idioti o i superbi non ammetteranno che quel qualcosa li ha cambiati. È il momento in cui tutti capiscono che là, sul varco, non c'è più niente da fare. È il momento in cui la folla intona un coro che non c'entra nulla col non mollare mai. È un coro che parla proprio dell'opposto del non mollare mai. Ed è la canzone popolare triestina più famosa e più cantata, e quella attorno alla quale circolano le versioni più disparate - per alcuni è un inno asburgonostalgico, con «viva l'A» che vorrebbe dire «viva l'Austria» - ma che nell'interpretazione maggiormente diffusa è l'espressione di un fatalismo senza cinismo né rassegnazione, che celebra la voglia di vivere e il non aver paura.
d«E viva là e po' bon,
xe questo el moto triestìn.
Che la vadi ben,
che la vadi mal,
sempre alegri mai passion,
viva là e po' bon!».
È dopo quel coro, cantato a squarciagola e ripetuto più volte, che parte un'altra carica e le manganellate si fanno più cattive, spingendo e chiudendo le persone tra le macchine parcheggiate e i guard rail, tra gli scudi che avanzano, gli idranti che colpiscono ancora e, infine, tra le decine e decine di lacrimogeni che, rendendo l'aria irrespirabile, costringono la folla a lasciare il varco. Che finalmente può essere riconsegnato alla sua funzione di produttivo e sconosciuto nonluogo.
16. Una piazza "diversiva"
L'uscita dal varco, dove nel frattempo sono arrivate ancora più persone di quante ce ne fossero all'inizio, assume in breve i connotati di una diaspora. Come è naturale che accadesse: la compressione al varco 4 di una mobilitazione moltitudinaria e spuria, con le distorsioni che il metaverso le ha imposto, raffigurandola come un gregge guidato da un unico pastore, hanno permesso a molti di illudersi che, una volta svuotato quel nonluogo, ciò che conteneva si disintegrasse. O perlomeno si adeguasse alla logica del gregge, in modo da dover poi occuparsi solo del pastore per chiudere la pratica.
Fuori da varco, dopo una prima resistenza agli incessanti attacchi con gli idranti e i lacrimogeni - alcuni dei quali finiscono anche nel cortile di una scuola, quel giorno adibita a seggio elettorale - il grosso dei manifestanti in effetti si incammina su passeggio Sant'Andrea, in direzione delle Rive e del centro cittadino. Giunti in piazza Unità però, invece di seguire l'indicazione di alcuni di restare tutti nella piazza, il grosso della gente parte in un lungo corteo selvaggio di migliaia di persone che sfila per alcune ore attraversando il centro della città.
Il corteo confluisce infine di nuovo in piazza Unità, il "salotto buono" la cui protezione, nelle settimane successive, diventerà l'alibi per introdurre in tutta Italia la prima misura generalizzata di limitazione del diritto a manifestare nella storia della Repubblica. Da qui piccoli gruppi via via più numerosi si dirigono verso il porto.
L'attenzione dei mass media si concentra sulla piazza, da dove però per molte ore hanno ben poco da raccontare. Puzzer - investito solo dal ritorno di immagine costruito al varco - resta in attesa con chi ora lo accompagna di qualcosa e di qualcuno, che appena a metà pomeriggio si riveleranno essere un incontro col prefetto e la comparsa di un losco personaggio fino a quel punto estraneo alla mobilitazione triestina. Si inganna il tempo facendo di tutto affinché le persone presenti in piazza - in gran numero provenienti da fuori - restino qui, invitandole di continuo a restare sedute, senza fare casini e, per quanto possibile, senza sapere cosa accade nel frattempo al porto.
Un ulteriore blocco consistente di manifestanti è infatti restato nei pressi dell'incrocio di fronte al varco, qualcuno anche per recuperare i molti mezzi rimasti nel parcheggio, ma soprattutto con l'intenzione di continuare a presidiare il porto in forma pacifica. È uno dei due blocchi dove affluiranno di nuovo molte persone, e che di fatto non si scioglierà prima di sera, malgrado la continua pioggia di lacrimogeni e i ripetuti bombardamenti d'acqua.
Un'altra parte ancora si è spostata di alcune centinaia di metri verso viale Campi Elisi, raggiungendo l'incrocio con via Schiapparelli, e quindi la zona che fa da cerniera tra diversi rioni molto popolati, nonché un incrocio strategico per i mezzi che arrivano dalla Slovenia e dalla zona industriale. È anche un punto di incontro molto popolare, con alcuni buffet tipici, bar e pizzerie, molto frequentati nei giorni feriali da chi lavora in porto ma non solo. Ed è una zona che conosco bene, perché nelle vie che salgono da quell'incrocio ho passato buona parte della mia infanzia, scorrazzando in bicicletta per giornate intere, o frequentando i ricreatori, i giardini pubblici e le piazze della zona, ai tempi in cui l'infanzia non sottostava ancora all'ipercontrollo a cui è sottoposta oggi.
Su quell'incrocio si stabilisce un blocco più determinato, con cassonetti trascinati a bloccare il traffico e lanci di bottiglie e oggetti contro la polizia, fronteggiato da un incessante bombardamento di idranti e lacrimogeni che continuerà per tutta la giornata.
Di tutto questo chi ha preso il controllo di ciò che (non) accade in piazza Unità, dove le uniche e inutili tensioni riguardano le troupe televisive, tenta per quanto possibile di non far trapelare nulla. Fino al ridicolo.
Nelle battute finali della diretta di quasi nove ore che Local Team ha trasmesso da Trieste il 18 ottobre, ci sono venti minuti che potrebbero essere il teaser tragicomico di quanto accadrà nei dieci giorni successivi.
La scena si svolge nel pomeriggio inoltrato, e inizia con Stefano Puzzer, lo psichiatra Marco Bertali e il medico vicentino Dario Giacomini che escono dalla Prefettura, dove sono saliti in rappresentanza di «non_si_sa_che_cosa», dal momento che Puzzer non rappresenta più il Clpt e con l'uscita dal porto non ha un ruolo definito. Bertali è un componente del Coordinamento No green pass, che però non gli ha dato nessuna delega a rappresentarlo e in seguito chiarirà di non cercare trattative istituzionali. Giacomini infine è davvero un marziano comparso dal nulla, viene da Vicenza, nessuno l'ha visto fino a quel punto nelle mobilitazioni triestine, ha un curriculum politico da ex candidato di Casapound e rappresenta un coordinamento antivaccinista chiamato ContiamoCi, che a Trieste finora non ha nessun ruolo.
I tre si fanno spazio tra la folla per raggiungere una panchina dalla quale comunicare al megafono l'esito del loro primo incontro ufficiale. Lo spazio ristretto di quel palco improvvisato regala un momento di comicità decisamente trash: Puzzer sale per primo, e Giacomini resta per diversi secondi col sedere del gruista piantato in faccia prima di riuscire a issarsi a sua volta. Poi tocca a Bertali guadagnarsi il suo podio da buon terzo e non rischiare di restare fuori dalla storica inquadratura. Ma ci mette quasi un minuto prima di poter salire, finendo a sua volta per appiccicarsi alle terga di Giacomini. Il bisogno di apparire, visto da dietro, può causare momenti imbarazzanti.
È così che inizia quello che doveva essere il battesimo della lunga marcia nelle istituzioni e nella politica di Stefano Puzzer, in veste non più di portuale, ma di leader nazionale del movimento no green pass, a fianco di un medico antivaccinista già candidato di un partitino neofascista. Peccato che, mentre Puzzer tenta di infiocchettare il primo della lunga serie di pacchi che le istituzioni gli faranno - demolendo a uno a uno tutti i suoi proclami -, si sparge tra la folla la notizia che al porto la polizia sta ancora caricando. Dopo sette ore dallo sgombero del varco 4 e alla faccia delle rassicurazioni sulla fine delle ostilità che il prefetto ha garantito e che Puzzer ha ripetuto alla piazza.
Quanto avvenuto a Trieste tra il 15 e il 18 ottobre è stato un vero blocco della produzione e ha seriamente messo in scacco l'idea, ampiamente riaffermata con la pandemia, che questa debba andare avanti a qualsiasi costo. Negarlo, o ridurlo a semplice risultante di cause concomitanti perché non è stato solo uno sciopero inteso nel senso più stretto della parola, non modificherà questo fatto. Che è un ulteriore dato di realtà.
A ribadirlo e sottolinearlo, la colonna chilometrica di camion provenienti dalla frontiera slovena che, a causa dei blocchi stradali su viale Campo Marzio e di fronte al porto, paralizzerà fino alla tarda serata del 18 ottobre tutto l'asse viario retroportuale. Tanto più che, per tentare di rimuovere quei blocchi, cannoni ad acqua e lacrimogeni vengono usati per tutto il giorno fin dentro un paio di rioni molto popolati, scatenando la rabbia degli abitanti, di cui molti sono scesi in strada per inveire contro la polizia. Che ricambia i saluti con altra acqua e altro gas.
Quando verso le 20, in piazza Unità, vedo Puzzer acclamato da una folla esausta per aver ottenuto la grazia di un incontro, da tenersi cinque giorni dopo, col ministro dell'Agricoltura, per l'ennesima volta mi dico «È tutto sbagliato». E per l'ennesimo volta mi ripeto «ed è giusto esserci». Soprattutto ripensando a quanto ho visto e vissuto nei giorni e nelle ore precedenti.
Le ultime ore in particolare, quando, dopo aver parcheggiato la moto in via di Calvola di fronte alla mia vecchia scuola materna, sono sceso lungo via Tonello, riconoscendo subito lo stesso odore acre e soffocante respirato in via Tolemaide a Genova, quello che anche a mesi di distanza dagli scontri No Tav impregnava ancora i boschi della Val Clarea. L'odore di un gas che in Italia viene utilizzato legalmente, e sistematicamente, per reprimere le manifestazioni, ma che diversi organismi internazionali, supportati da molti studi scientifici, denunciano essere molto pericoloso per la salute, soprattutto se utilizzato in dosi massicce. A Trieste ne è stato utilizzato un tale numero che la polizia è stata persino filmata mentre lamenta di aver finito le scorte.
Era giusto esserci. Malgrado le imboscate sui social, e le ciacole sullo stare a fianco dei fascisti che, come tutte le ciacole, stanno a zero. Sì, li ho visti un po' di fascisti e fascistelli in Campi Elisi. Di quelli che rosicano ancora per il 3 novembre di tre anni fa, diecimila antifascisti dell'Alto Adriatico a dire a qualche centinaia di «patrioti italiani» che questa non è casa loro. E ne ho visti anche altri, già meno etichettabili però, perché man mano che ti schiodi dai comodi salotti dell'illuminata borghesia, quella che manifesta e risolve i problemi con una firma, definire le appartenenze valoriali diventa una bella impresa a voler farlo seriamente.
E poi, a trascinare cassonetti sulla strada - quei cassonetti che per un giorno ancora hanno bloccato la produzione - e a rispedire ai mittenti i proiettili fumanti dei lacrimogeni ho visto anche chi considera sacro il Primo maggio, e nei giorni precedenti magari ha fatto una promessa a sé stesso e alla sua città, con l'ostinazione di chi muore ogni giorno in un porto o in un reparto, e risorge ogni domenica in uno stadio.
E infine a quell'incrocio, che è un accrocchio di locali dove è una festa trovarsi anche solo in pausa pranzo, già frequentatissimo di suo e oggi ancora più affollato, tra gente che era al varco e i tanti che si sono aggiunti magari lasciando il lavoro, ho visto la mia gente, quella dei miei rioni. Incazzata di brutto per quel trattamento, per la doccia non richiesta, per tutta quella merda respirata. Così incazzata da tirarle pure lei a un certo punto le bottiglie contro le guardie, sbattendosene alla grande se poi scriveranno che era tutta Forza Nuova o gli intramontabili black bloc. Di certo tutta questa gente non stava assaltando la Cgil, e anzi ha contribuito a fermare un giorno in più lo spettacolo che i padroni non vorrebbero che si fermi mai.
Sarà anche sbagliato, mi dico.
Ma è giusto esserci.
Andrea Olivieri
(fine seconda parte)