Un green new deal europeo: ora o mai più

28.04.2021


È venuto il tempo della ricostruzione. Di un futuro che per essere tale dovrebbe fare rima con speranza. E di futuro, ripresa, resilienza e di qualche speranza cercano di parlarci i freddi documenti europei del Next Generation Eu, così come il correlato dibattito che cerca faticosamente di scalzare via quello ben più opprimente legato al Covid 19. Ma il futuro è una cosa seria, generalmente va conquistato, non contempla regali.

E infatti non è un regalo nemmeno il Recovery fund, la dotazione da 209 miliardi - senza contare le cifre di contorno o gli abbellimenti contabili - che dovrebbe mettere l'Italia e l'Europa in condizioni di afferrare il futuro e di dare una sterzata alla crisi. Solo che il dibattito che sottende a quei documenti è spesso immemore delle condizioni in cui l'Europa è arrivata al presente, delle fratture sociali esistenti, delle diseguaglianze, dei conflitti e delle contraddizioni profonde. La prima aporia che possiamo riscontrare nel dibattito sul Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) è innanzitutto questa tonalità di pacificazione e unificazione nazionale coltivata nella necessità di abbattere «tutti insieme» la pandemia, glorificata nella nascita del nuovo governo Draghi.

La nascita del governo dei «competenti» offre già una cartina al tornasole della situazione. Il sistema politico italiano, infatti, ha inteso approfittare dell'irripetibile opportunità data dalla sovrapposizione tra crisi istituzionale (che dura almeno da un ventennio), crisi sociale ed economica (anch'essa almeno dal 2008) e crisi pandemica per regolare un po' di conti. Innanzitutto per eliminare le «anomalie di sistema» e quindi costringere le forze riottose ad accettare l'ordine economico fondato sull'Unione europea e adattarsi a una nuova normalità e a un perimetro istituzionale più sobrio e affidabile. Il governo Draghi è un governo di sistema che mette ai margini i refrattari - pochi e quasi tutti a destra - per istituire un nuovo ordine politico basato sui canoni del pensiero unico liberista. Una normalizzazione che trafigge di colpo anche un movimento come i Cinque Stelle, finora indisponibile ad accettare tutte le compatibilità, ma che, nell'accodarsi a Mario Draghi, imbocca la strada della completa istituzionalizzazione. E che lambisce anche la destra sovranista di Matteo Salvini costretta ad accettare il patto europeista per accreditarsi una volta per tutte come normale forza di governo. Colpisce che in questa stabilizzazione non emerga anche a sinistra, come invece a destra accetta di fare il partito di Giorgia Meloni, una forza significativa che recuperi la tradizione della sinistra radicale di non farsi assimilare dal partito unico della stabilità europeista.

Il futuro che viene, quindi, si presenta con il volto beffardo di un nuovo quadro politico che però dovrà giocare molte delle sue carte nella gestione e realizzazione del Recovery fund, mantra obbligato per chiunque voglia impostare un piano programmatico per l'avvenire. Ma, come già evidenziato, il dibattito è fortemente falsato dalla rinuncia a tracciare i confini dei soggetti sociali in campo e a rendere trasparenti le contraddizioni che questi si portano dietro. Non esiste un Piano di ripresa valido per tutti, buono per qualunque esigenza, non c'è una transizione ecologica che possa offrire una speranza ai giovani di Fridays for Future e mettere in ordine la disastrata economia capitalistica.

Lo si deduce già dalle cifre. Quando ha presentato il Green New Deal negli Stati uniti la sinistra socialista di Bernie Sanders e Alexandria Ocasio-Cortez non ha certo proposto una rivoluzione sociale, immaginando una corposa ma più circoscritta riforma di sistema. Quel piano si era dato obiettivi importanti come l'utilizzo di fonti di energia rinnovabile al 100% per arrivare a zero-emissioni da effetto serra, ingenti investimenti pubblici, veicoli elettrici, nuove reti ferroviarie, vincoli precisi alla produzione industriale nociva, nuovi posti di lavoro. E ancora, maggior tassazione ai redditi più elevati (il 70% di imposte sopra i 10 milioni di dollari), salari più alti, garanzie per le pensioni. Insomma, un piano di riforma adeguato alle urgenze del nostro tempo in cui conciliare i destini del pianeta con quelli delle classi più disagiate. Alcuni hanno stimato che quel piano potesse costare circa mille miliardi (secondo l'American Action forum, legato ai Repubblicani, almeno 9.300 miliardi in dieci anni, mentre la Clear View Energy Partners ha stimato un costo di almeno tre volte tanto, 2.900 miliardi l'anno).

Questa digressione sul Green New Deal serve a collocare in un contesto più adeguato le cifre del Next Generation Eu: 750 miliardi di euro da spalmare su cinque-sei anni di cui il 37%, cioè 277,5 miliardi, destinati alla «transizione ecologica». Si tratta, nella migliore delle ipotesi, di 55 miliardi annui per l'intera Unione europea. Come si vede, la distanza con le esigenze più radicali, ma pur sempre riformistiche, del piano statunitense è abissale. E questo aiuta a capire che il Recovery fund, tanto decantato e dotato, secondo i suoi aedi, di un potenziale magico, in realtà è un investimento del tutto inadeguato ai tempi e in grado, forse, di abbellire un po' la situazione offrendo ancora una volta al processo dell'accumulazione quantitativa del capitalismo un po' di benzina a costo zero.

Osservando il piano italiano, poi, la percezione della sua insufficienza si sposa con la consapevolezza che il Pnrr è finalizzato soprattutto a sostenere l'offerta delle imprese e non certamente una revisione della struttura economica o del risanamento ambientale. Nel progetto definitivo presentato alle Camere dal governo Conte (probabilmente sottoposto a revisione dal governo Draghi) i 66,59 miliardi legati alla transizione ecologica (al netto dei fondi aggiuntivi del React Eu o di altri fondi europei) ne contengono 29 finalizzati all'efficienza energetica e riqualificazione degli edifici pubblici e solo 10,67 per le energie rinnovabili. In ogni voce del Pnrr - Digitalizzazione, Ecologia, Infrastrutture, Istruzione e Ricerca, Inclusione e coesione, Salute - si rintracciano consistenti trasferimenti alle imprese che costituiscono il cuore del progetto. Dei 45,38 miliardi legati alla «missione» Digitalizzazione, quasi 19 sono destinati alla «Transizione 4.0», incentivi e credito di imposta alle imprese che effettuano investimenti in tal senso. La stessa finalità assumono i 7,5 miliardi per la riconversione della filiera agricola, mentre quando si passa alle Infrastrutture, l'88% dei fondi, ben 28,30 miliardi su 31,98, sono destinati all'«Alta velocità ferroviaria e manuntenzione stradale». Anche la voce Istruzione e ricerca contiene il 42%, cioè 11,62 miliardi, destinati «alla ricerca di impresa» e una parte dei fondi alla Salute vanno in direzione di innovazioni, ricerche e digitalizzazione che coinvolgeranno anche le numerose aziende sanitarie private.

Insistere sulla transizione verde è però importante a prescindere dalle finalità dei piani europei e dai loro effettivi disegni. Il sistema economico occidentale si è inceppato dopo la grande crisi del 2008, salvo ripartenze congiunturali, e non è più riuscito a risolvere la sua crisi di sovrapproduzione ampiamente confermata dagli studiosi. La crisi pandemica ha invece messo a nudo la pericolosità del «realismo capitalista» addirittura incapace, nei giorni più duri dell'emergenza, di fornire ai cittadini delle semplici mascherine di protezione e ancora oggi inadatto a garantire una solida assistenza sanitaria o un effettivo lockdown in grado di bloccare la diffusione del contagio. Mai come in questo tempo la contrapposizione tra «vite» e «profitti» è stata così feroce e così disvelata. Le economie occidentali approfitteranno probabilmente di questo ennesimo «shock» per ridare slancio, come ha argomentato a suo tempo Naomi Klein, ai propri progetti di ristrutturazione sociale. Non è un caso se il Regolamento europeo per il Recovery plan, approvato definitivamente dal Parlamento europeo il 9 febbraio 2021, abbia rafforzato le raccomandazioni ad accompagnare i progetti dei Piani di ripresa e resilienza, pena la mancata erogazione di fondi, con riforme strutturali a partire dal «mercato del lavoro» e dalle «pensioni». Niente di nuovo sul fronte occidentale, quindi, e la conferma che il vero shock dovrebbe provenire da un cambio di paradigma della struttura economica in cui l'ecologia può giocare un ruolo rilevante. Un piano di transizione ecologica da almeno mille miliardi, dunque, sulla scia del Green New Deal statunitense, una forte connessione tra le modifiche produttive e i diritti sociali e salariali, senza anteporre gli uni agli altri.

Dopo lo shock della pandemia abbiamo bisogno di una sferzata ideale che immagini davvero il futuro senza farne un destino inesorabile di ricette sperimentate e stantie. Alcune associazioni come il Forum Diseguaglianze e Diversità hanno assunto un approccio dialogico con il percorso del Pnrr non solo analizzando e criticandone la struttura, ma proponendo misure diverse e aggiuntive e una visione politica più sociale e solidale. Un'ipotesi avanzata nei confronti del precedente governo nell'idea di poter trovare dei varchi di ascolto e che oggi si trova a fare i conti con il diverso assetto politico. Non conosciamo analoghe proposte alternative di altri soggetti, ma si nota il ruolo della Cgil in particolare, che al pari delle altre sigle sindacali maggioritarie si è disposta positivamente nei confronti del governo Draghi.

Quest'ultimo, invece, per la gestione del Recovery plan si è affidato a una «triade» - il ministero della Transizione ecologica di Roberto Cingolani, quello per l'Innovazione tecnologica e la transione digitale di Vittorio Colao, il ministero dell'Economia e finanze di Daniele Franco, oltre ovviamente a Mario Draghi - che per storie personali, idee e relazioni degli uomini selezionati appare orientata a organizzare i progetti in funzione della grande impresa italiana. Basti guardare i partner dell'Istituto italiano di tecnologia diretto per molti anni da Cingolani che poi è diventato un dirigente di Leonardo; al passato di Colao, dirigente storico di Vodafone a cui si affida la digitalizzazione; al primato del rigore nei conti pubblici brandito da Daniele Franco che sostiene l'importanza di conseguire un forte avanzo primario (quindi compressione della spesa). Il cuore del governo Draghi è rappresentato da un circolo espressione della «finanza privata» e nei suoi confronti servirebbe un atteggiamento determinato nel rivendicare, per lo meno, una gestione redistributiva del Pnrr in favore di servizi sociali (si pensi alla voce Scuola e Università e alla Coesione sociale), bloccandone le propensioni a incentivare le imprese a fondo perduto (come nel caso della transizione digitale 4.0) e svelando le tante ipotesi di greenwashing che si nascondono dietro l'affascinante terminologia di «transizione ecologica» (si pensi alla centralità dell'idrogeno gestito da Eni). Il sindacato, in mancanza di adeguati partiti della sinistra, avrebbe un ruolo decisivo di cui al momento non c'è traccia.

Tutto questo non avverrà senza un rinnovato protagonismo sociale. La pandemia ha reso più difficile la mobilitazione e la partecipazione. Ma sono queste le gambe su cui il futuro avrà qualche chance di essere accettabile.


Salvatore Cannavò

Gianni Vannini - Blog politico
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