Un programma economico per la sinistra: era ora!
Fin dalle sue prime battute, la crisi economica scatenata dalla pandemia si annunciava come un evento straordinario, tale da richiedere profondi ripensamenti delle politiche economiche. In un appello di economisti italiani pubblicato il 13 marzo sul Financial Times, e poi in altri interventi, l'economista marxista Emiliano Brancaccio ha insistito in particolare sulla necessità di interventi radicali - reintroduzione di forme di repressione finanziaria, controllo dei movimenti di capitale, riproposizione in modalità aggiornate dell'economia «di piano». Abbiamo approfittato del ciclo di seminari La Svolta, organizzato da Comunet-Officine Corsare, per coinvolgerlo in una discussione collettiva su questi temi, da cui nasce quest'intervista.
Per parlare delle misure «anti-crisi», è necessaria una domanda preliminare: che tipo di crisi abbiamo di fronte? Possiamo aspettarci un «ritorno alla normalità»?
Non si può mai parlare di una «normalità» capitalistica. Sia nel senso convenzionale di tracollo, che in quello etimologico di «separazione» e «cambiamento», la crisi è connaturata al modo di riproduzione del capitale. Nell'appello sul Financial Times ricordavamo che una nuova crisi era nell'aria già prima del virus. Lo evidenziava nell'Outlook di ottobre lo stesso Fondo monetario internazionale (Fmi), notando che le istituzioni finanziarie non bancarie (fondi pensione, assicurazioni, ecc.) mostravano livelli di fragilità analoghi a quelli del 2007-2009. Ovviamente, il virus ha moltiplicato le dimensioni della recessione e ci ha messi al cospetto di una «apoteosi» della crisi capitalistica, la cui violenza senza precedenti si è manifestata in un concentrato di pochissime settimane. In una lettera a Kugelmann, Marx scrive che una nazione è destinata a soccombere se interrompe l'attività lavorativa anche solo per un paio di settimane. Non è andato troppo lontano dal vero. Nell'Outlook di aprile l'Fmi stima per la fine del 2020 una caduta del Pil del 3% a livello globale, del 6% negli Stati uniti, del 7,5% nell'eurozona, del 9% in Italia, e così via. Queste previsioni spaventose sono comparabili solo ai mesi più duri della grande depressione e della Seconda guerra mondiale. Eppure sono ottimistiche, essendo state elaborate sotto l'ipotesi che a fine anno non perderemo più dell'8% delle ore di lavoro. Basta guardare la durata del lockdown per capire che andrà peggio.
In questo scenario trovo stupefacente che fino a poche settimane fa la Banca centrale europea e altre istituzioni evocassero la prospettiva confortante di una crisi «a forma di V», cioè con una rapida caduta e un altrettanto rapido recupero del ritmo «naturale» di crescita. Io e altri eravamo a dir poco scettici: sostenevamo che questa idea del rapido ritorno alla normalità di un ipotetico equilibrio «naturale» è una mistificazione tipica dei cosiddetti modelli economici di stampo «neoclassico», su cui ancora oggi si basano le previsioni della Bce e delle altre grandi istituzioni. I numeri dell'Fmi mettono in chiaro che quei modelli sono fuori dalla realtà. Chi evoca un rapido ritorno alla «normalità» a questo punto compie un'azione intellettualmente criminale.
Se non si tornerà alla «normalità», si accentueranno invece fenomeni già in atto come le avvisaglie di «de-globalizzazione» su cui ponevi l'attenzione negli scorsi anni?
Quella che viviamo è una tragedia shakesperiana - un grande meccanismo, per dirla con Jan Kott - che vedrà tre atti: prima il virus, poi la crisi economica, infine una ridefinizione dei lineamenti della lotta di classe. Il conflitto principale sarà interno alla classe capitalista: i capitali più forti punteranno a liquidare o ad assorbire quelli più deboli in base a una tendenza marxiana verso la centralizzazione in sempre meno mani che sarà ancora più veloce che in passato; e i capitali deboli reagiranno, ancor più esasperatamente, con tentativi di «de-globalizzazione» e «sovranismo».
Da questo punto di vista c'è un chiaro elemento di continuità tra le crisi precedenti e questa «crisi apoteotica» del Coronavirus. La centralizzazione dei capitali e la reazione sovranista erano le forze principali della vecchia fase storica e resteranno protagoniste anche nella nuova era post-virus. La novità è che lo scontro sarà ancora più violento. Questa intensificazione della lotta non comporta necessariamente un vincitore assoluto. Più probabile è che tali forze in conflitto arrivino a una sintesi inedita, che io definisco «centralizzazione geopolitica del capitale». Rispetto al passato, già oggi sussistono svariati vincoli alle acquisizioni proprietarie e di controllo tra Asia, America ed Europa e persino tra singole nazioni. Questa nuova tendenza verso centralizzazioni del capitale che si sviluppano solo dentro precisi confini geopolitici segna l'inizio di una nuova era di lotta, e purtroppo, potenzialmente, anche di guerra.
A proposito di nuovi lineamenti della lotta di classe, Mario Draghi ha proposto di espandere il debito pubblico per ridurre i debiti privati, e altri hanno sostenuto addirittura l'urgenza di un «socialismo pandemico» per far fronte alle bancarotte. Nel dibattito politico questi sono considerati degli avanzamenti rispetto alla vecchia dottrina dell'austerity e delle privatizzazioni. Ma tu hai criticato entrambe queste posizioni, sostenendo che non chiariscono chi pagherà i costi. Puoi spiegare?
Espandere il debito pubblico come invocato da Draghi può forse salvarci da una deflazione da debiti senza sbocco e da una conseguente lunga depressione mondiale, ma bisogna poi capire su chi ricade l'onere del debito. Draghi si limita a sperare che i tassi d'interesse resteranno bassi in modo che il costo del debito rimanga basso anche in futuro. Se così fosse, a pagare sarebbero i rentier, destinati a una sorta di eutanasia spontanea. Io però temo che possa andare diversamente. Per finanziare la risposta all'emergenza i governi potrebbero creare un pesante eccesso di offerta di titoli che in un mercato deregolato potrebbe fare riesplodere i tassi d'interesse. In tal caso non ci sarebbe nessuna eutanasia: anzi, i rentier tornerebbero a guadagnare a spese della collettività. Che si realizzi l'uno o l'altro scenario non è questione di speranza, è questione politica. Occorre cioè capire se sussisterà la volontà politica di governare il mercato per schiacciare i tassi d'interesse verso lo zero.
L'espressione «socialismo pandemico» è di Willem Buiter, un economista olandese. Buiter ritiene che la crisi renderà inevitabile un massiccio intervento degli stati negli assetti del capitale. Lo penso anche io, ma temo che questo interventismo statale assumerà i tratti tipici di un «socialismo per i ricchi», come veniva inteso da Andrew Jackson, il controverso presidente statunintense al quale si attribuisce l'espressione «privatizzazione dei profitti e socializzazione delle perdite». Esempi recentissimi sono le proposte della Banca centrale europea (Bce) di acquisire i crediti deteriorati nelle mani degli investitori privati per convogliarli in una «bad bank» pubblica; o le acquisizioni da parte dello stato di banche e aziende private in crisi, senza però assumerne il controllo e promettendo di rivenderle ai privati quando la situazione migliorerà. In entrambi i casi gli stati acquistano dai privati a valori superiori ai prezzi di mercato e rivendono poi a prezzi inferiori. Così la collettività si fa carico delle perdite degli investitori privati durante le crisi, mentre questi invece tengono per sé i profitti nelle fasi di espansione. Penso che chiamare queste porcherie «socialismo» sia un po' offensivo per la storia stessa del socialismo. In realtà, quello che accade oggi è una cosa diversa anche dal «capitalismo di stato», di cui Eric Hobsbawn preconizzò il ritorno in una delle sue ultime interviste. Richiamando Louis Althusser, potremmo allora suggerire un'altra espressione: lo stato interviene nell'umile ruolo di «ancella» della riproduzione del capitale finanziario, ovvero della ricostituzione dei profitti.
Mentre si chiudevano attività ben più essenziali, le borse sono rimaste aperte, registrando rovesci e recuperi spettacolari. Perché hai insistito sulla necessità di chiudere le contrattazioni, reintrodurre controlli sui movimenti di capitale e adottare forme di «repressione finanziaria»?
Se lo stato è un'ancella, il mercato finanziario è invece centro nevralgico della riproduzione del capitale. L'intero sistema delle norme, delle istituzioni e delle politiche è oggi subordinato al mercato finanziario, la cui centralità si basa sul convincimento che sia l'unica istituzione in grado di prevedere il futuro. I prezzi che scaturiscono dalle contrattazioni dei titoli dovrebbero cioè dirci quali stati e imprese sono solvibili e quali destinati alla bancarotta, quali settori sono in espansione e quali in declino, e così via. Tommaso Padoa Schioppa sintetizzò questa incrollabile fede nelle capacità profetiche del mercato con una frase da Grand Guignol: «I mercati sentono l'odore del sangue». Ossia, se scorgono debolezze nella politica di un paese, ne traggono le implicazioni e si liberano dei suoi titoli. Questo porta il paese alla crisi ma la colpa starebbe nelle sue ferite pregresse, i mercati si limiterebbero solo a vederle e ad anticipare un destino già scritto.
A ben vedere, però, questa idea del mercato come «profeta» incolpevole e infallibile è stata ampiamente smentita dalla ricerca empirica. Basti ricordare i prezzi altissimi con cui si scambiavano titoli di banche che sarebbero fallite di lì a poco alle soglie della crisi del 2008. La realtà è che i prezzi dei titoli sono continuamente influenzati da ondate di euforia e di panico e sono in larga misura dominati dall'azione degli speculatori. In ogni momento coalizioni di speculatori organizzano vere e proprie battute di caccia ai guadagni di capitale che non dipendono da «neutrali» previsioni del futuro e che determinano immani spostamenti di capitale e di potere - dagli stati agli speculatori. Il mercato non prevede il futuro ma lo determina, secondo gli interessi della classe egemone.
Con una parafrasi di Cicerone potremmo dire che noi barbari abbiamo liberato e divinizzato la «bestia» del mercato e della speculazione, sperando di trarne vantaggio (ricordo le apologie della «democrazia azionaria» che imperversavano negli anni Novanta tra i partiti socialdemocratici ed ex comunisti in Europa). Ma alla fine la «bestia» ci si ritorce contro, con spietata violenza.
Con «repressione finanziaria» intendiamo allora un assetto normativo, istituzionale e politico che rimetta in gabbia la bestia della speculazione e della libertà di movimento dei capitali. Regimi di repressione della finanza erano prevalenti negli anni Sessanta e Settanta, e alcune tracce si vedono ancora oggi. Basti ricordare l'articolo 65 del Trattato di Funzionamento dell'Unione europea: stabilisce che è possibile imporre controlli sui movimenti internazionali di capitali persino dentro l'eurozona. Ma il tema dei controlli sui capitali va ben al di là degli incerti destini della moneta unica. Tornare a discutere di controlli sui capitali sarebbe un primo segnale di svolta, una prova del fatto che stiamo finalmente elaborando una politica economica all'altezza dell'enormità di questa crisi.
Accanto alle misure immediate e per l'emergenza, hai evocato fin dall'inizio politiche inedite per evitare un tracollo generale dell'economia e dell'occupazione. Cosa intendi quando chiedi il ritorno a un'«economia di piano», e da quali settori pensi possa prendere avvio?
Provo a ragionare per opposizioni: la lotta per il piano è l'antitesi logica della lotta per il reddito. Se ci pensate, le lotte per un reddito di base universale e incondizionato alla Toni Negri, o per la «helicopter money for the people» à la Jeremy Corbyn, non mettono in discussione l'attuale regime di riproduzione del capitale, che si basa sulla libertà della finanza. L'allocazione dei capitali e la mobilitazione delle forze produttive resterebbero subordinate alla logica del libero mercato. L'unica novità è che a valle si redistribuirebbe un po' del surplus capitalistico. Questo va anche bene, ma è insufficiente, ed è totalmente inadeguato rispetto alla crisi attuale, una catastrofe che definirei «totalitaria», perché combina crisi di domanda e di offerta, e quindi rende insufficienti anche le più ardite ricette keynesiane.
L'ex capo economista del Fmi Olivier Blanchard ha parlato di «disorganizzazione dei mercati»: le catene input-output della produzione e della distribuzione sono effettivamente impazzite. Gli speculatori che profittano della scarsità di mascherine e di materiale sanitario sono la piccolissima punta di un enorme iceberg di nefandezze. Per fare solo un esempio, legato alla crisi ecologica, con l'industria del riciclo ferma a causa del crollo degli ordini si sta verificando un inquietante accumulo di materiali riciclati: il rischio è che per smaltirli si dovranno allentare i vincoli ambientali di legge in modo da mettere alla massima potenza gli inceneritori e riattivare le discariche più insicure. Potrei citare molti altri casi di questo tipo. Per affrontare allora questa disorganizzazione capitalistica è evidente che le lotte a valle dei processi non bastano. Bisogna per forza intervenire a monte dei meccanismi di riproduzione, e questo si può fare solo con una «pianificazione pubblica», l'unico strumento in grado di mettere ordine in un tale sconquasso.
Un'ottica di piano andrebbe assunta in primo luogo nel governo delle banche centrali. Diversamente da quel che propone la vulgata monetarista, io sostengo che le banche centrali non sono in grado di governare il ciclo economico e l'inflazione. I banchieri centrali, piuttosto, agiscono come regolatori delle «condizioni di solvibilità» del sistema economico, e per questa via regolano il ritmo delle bancarotte - quindi anche la velocità della centralizzazione dei capitali in sempre meno mani. Anche se faticano ad ammetterlo, i banchieri centrali svolgono già questo ruolo cruciale di regolazione della velocità della centralizzazione. Ma potrebbero fare di più. Essi potrebbero agire da veri e propri pianificatori se determinassero anche la direzione della centralizzazione, ricollocando le catene principali del capitale non più nelle mani di un ristretto manipolo di proprietari privati, ma in mani pubbliche, collettive. A partire dal sistema bancario, per estendersi anche in altri settori chiave: dalla sanità, alle infrastrutture, alla ricerca, e a tutti gli ambiti in cui la logica del capitale privato sistematicamente fallisce.
Una moderna logica di piano può iniziare da questo: da una concezione degli organi della politica economica, della banca centrale e più in generale dello Stato, non più nelle umili vesti di «ancelle» della riproduzione del capitale finanziario ma nel ruolo alternativo di «regolatori» della centralizzazione dei capitali, per orientarla sempre di più secondo fini collettivi. È il nodo della pianificazione pubblica del capitale centralizzato, che fu visualizzato per la prima volta da Marx e da Hilferding e che risulta oggi attualissimo. Ovviamente, una tale svolta richiederebbe che la Bce e le altre banche centrali siano messe sotto il controllo dei parlamenti e delle istituzioni democratiche. È una sfida immane, ma è necessariamente questo il livello a cui bisognerebbe oggi situare la lotta politica.
Tale livello della sfida rende inevitabile chiedersi: quali sono le probabilità che una «nuova sinistra» si faccia trovare all'altezza?
Siamo nel mezzo di una rivoluzione della prassi capitalistica, senza disporre di una teoria rivoluzionaria condivisa. Abbiamo ancora nella mentalità collettiva l'eco delle ottuse lotte alla casta, agli scontrini, ai cartellini, ecc. che non erano altro che forme fenomeniche del liberismo. Dobbiamo ammettere che siamo ancora all'anno zero della formazione di una intelligenza critica collettiva. Temo quindi che nell'immediato assisteremo a un nuovo baccanale degli speculatori, e a un'ulteriore accelerazione dei processi di centralizzazione capitalistica. Dinanzi a una nuova festa della classe egemone, le classi subalterne mireranno il carnevale dalla finestra per poi passare alla cassa e pagare il conto.
Ma penso pure che questa crisi avrà effetti colossali sugli assetti sociali e politici. Non dimentichiamo che la grande recessione del 2007-2009 ha portato alla ribalta i cosiddetti «populisti», che fino a quel momento erano praticamente inesistenti. Qualcosa di simile potrebbe avvenire anche stavolta. Con una differenza, però. Allora i populisti si presentarono al mondo in una veste di apparente terzietà, secondo l'idea che la distinzione tra destra e sinistra fosse ormai superata. La mia opinione è che quell'idea di terzietà sia destinata a dissolversi. La crisi del Coronavirus accentuerà il solco delle divisioni di classe, distruggerà tanti piccoli padroni, assottiglierà ancora il cosiddetto ceto medio e metterà in difficoltà le moderne aristocrazie operaie, pubbliche o private, manuali o intellettuali che siano. Nel «nuovo mondo» la disgregazione e la ricomposizione della lotta politica avverrà di nuovo lungo la linea divisoria delle classi contrapposte. In questo scenario, c'è il serio rischio che una nuova «destra» emergente sorga da una sintesi dialettica tra grandi capitali e quel che resta dei piccoli. Dal punto di vista politico si tratterebbe di un nuovo sodalizio tra gli interessi del vecchio establishment liberale e la montante reazione autoritaria. E non sarebbe certo la prima volta.
Il campo delle classi subalterne è invece tutto da edificare. Una riorganizzazione dei subordinati sotto un «nuovo alfabeto di lotta sociale» è difficile ma non credo sia fuori dalla Storia, perché l'accelerazione degli eventi cambia le condizioni materiali e quindi anche la coscienza collettiva. Pensate alla sfida che il virus ha lanciato ai sistemi sanitari. Milioni di cittadini si stanno accorgendo dei guasti prodotti dalla privatizzazione della sanità. Inoltre, sul terreno strettamente scientifico, i brevetti nelle mani delle aziende private stanno rallentando la ricerca contro il virus. Come abbiamo cercato di spiegare su the Scientist (23 marzo 2020), gli scienziati oggi chiedono di accantonare questa logica privatistica per mettere in comune le conoscenze, condividerle a livello internazionale e coordinare i gruppi di ricerca per accelerare la ricerca sul Covid-19. Io ho parlato in questo senso di un insorgente «comunismo scientifico» nella lotta contro il virus. Anche solo qualche mese fa un'espressione del genere sarebbe apparsa del tutto anacronistica. Oggi invece c'è una diffusa percezione che quel «comunismo» sia necessario. Mi sembra un tipico caso in cui l'accelerazione dei fatti storici impone un'accelerazione delle coscienze e una radicalizzazione dei linguaggi e delle agende politiche. È una prova della rilevanza epistemologica del materialismo storico, e credo sia pure una guida per l'azione politica ventura.
Intervista rilasciata a Giacomo Gabbuti dall'economista Emiliano Brancaccio