Vittorie di Pirro
La maggioranza assoluta dei cittadini di Roma, Napoli, Torino, Milano e Trieste non è andata a votare. A Bologna i votanti sono appena il 51%. Si potrebbe dire che l'astensione ha vinto quasi ovunque al primo turno senza bisogno di ballottaggio.
È questo senza dubbio il dato storico più eclatante di questa tornata di elezioni amministrative, che dovrebbe consigliare cautela a chi, come Enrico Letta, oggi rivendica la vittoria elettorale.
Da dove viene l'astensione
A non essere andata alle urne è soprattutto la parte di elettorato che negli ultimi dieci anni ha votato per chi era percepito, a torto o a ragione, come candidato anti-establishment. E si tratta in maggioranza della popolazione che più ha subito gli effetti materiali della crisi economica prima e della crisi pandemica poi.
A Roma l'affluenza nei due municipi del centro - gli unici in cui nel 2016 prevalse il centrosinistra - è addirittura più alta rispettivamente del 3 e del 6% rispetto alle elezioni di cinque anni fa. Al contrario nei municipi periferici in cui nelle scorse elezioni aveva fatto il pieno di voti Virginia Raggi, come quello che comprende quartieri come Torre Maura o Tor Bella Monaca, l'affluenza supera appena il dato impressionante del 40%. E dalle prime analisi la mappa dell'astensionismo sembra la stessa in tutte le grandi città.
Sono state le elezioni amministrative con il più basso livello di entusiasmo e interesse che si ricordi. I maggiori partiti hanno tutti faticato a trovare candidati disponibili per la carica un tempo tanto ambita di sindaco di una città metropolitana: se prima era considerata il trampolino di lancio per incarichi politici nazionali oggi è vista come una potenziale palude in cui rimanere invischiati.
Gli slogan dei candidati sono stati dominati da parole depoliticizzate come «competenza» ed «efficienza», condite con il pressoché unanime e pericoloso ritornello sulle «città sicure». Completamente assente è stata una discussione sui meccanismi strutturali che hanno prodotto l'attuale stato delle città e che incidono sulla vita concreta delle persone, quelli che abbiamo approfondito nell'ultimo numero di Jacobin Italia. Non c'è stata traccia di un dibattito sul modo in cui la pandemia ha trasformato le città, su come la centralità del turismo abbia mostrato i piedi d'argilla, sulla crescita esponenziale del commercio online e dell'economia delle piattaforme che modifica la composizione di classe dei territori, gli stessi luoghi che viviamo e il rapporto tra centro e periferie. Tantomeno qualcuno ha pensato a ridisegnare le città seguendo gli esempi di solidarietà e mutualismo che eppure sono stati protagonisti dei giorni più duri del lockdown della primavera del 2020.
In tutti i dibattiti è rimasto nell'ombra il fatto che in Italia un comune su otto è in situazione di dissesto finanziario e che le amministrazioni locali negli ultimi vent'anni sono state strangolate dai meccanismi del Patto di stabilità e crescita interno, ossia dalle misure liberiste imposte alle «città globali» per far concorrere gli enti locali agli obiettivi di stabilità finanziaria e riduzione del debito pubblico. In questi anni il contributo richiesto ai Comuni per ridurre il debito nazionale è stato decuplicato, con il conseguente taglio di servizi e aumento delle privatizzazioni. Privatizzazioni che hanno svuotato lo stesso ruolo democratico dei consigli comunali, con le decisioni su servizi essenziali come rifiuti e trasporti delegate a Cda di aziende che seguono la logica della massimizzazione del profitto.
Insomma, non c'è stato alcun dibattito sui motivi strutturali che hanno portato al fallimento delle ipotesi alternative di governo delle città tentate negli ultimi dieci anni. Dei cosiddetti «comuni arancioni» che avevano suscitato speranza a sinistra dieci anni fa non sembra rimasta traccia, e la stessa attesa suscitata dalla «diversità» del Movimento Cinque Stelle, che spesso abbiamo definito un'illusione, invece di lasciare spazio ad alternative compiute alle politiche liberiste ha prodotto ulteriore disillusione.
A questo si aggiungono gli effetti di due anni di stato d'emergenza, che hanno lasciato ben poco da gestire autonomamente ai governi locali, e quelli del Governo Draghi: l'unità nazionale in risposta al terremoto subito dai partiti tradizionali negli ultimi anni ha reso meno credibile anche il confronto politico tra opzioni contrapposte, approfondendo una già evidente crisi democratica.
Chi vince non convince
Il risultato è stato un ritorno alla normalità istituzionale dello scontro bipolare tra chi fino agli anni Dieci ha gestito senza grossi strappi le politiche liberiste nel nostro paese.
Pur senza crescere in modo significativo in termini di voti assoluti, il Pd può festeggiare perché inverte la tendenza delle vittorie della destra degli ultimi anni. Incassa il riuscito «addomesticamento» verso la propria parte del Movimento Cinque Stelle di Giuseppe Conte - come evidenziano i netti successi al primo turno di Napoli e Bologna - e il bisogno di «normalità» prodotto dalla crisi pandemica. La sensazione però è che il Partito democratico abbia ottime chances di successo solo quando vota il 50% degli aventi diritto. Cosa succede se la prossima volta vota anche l'altra metà popolazione?
Il centrodestra esce senza dubbio sconfitto. Ovviamente il ballottaggio per il sindaco di Roma è aperto e sarà dirimente per il bilancio elettorale del centrodestra, ma complessivamente la sconfitta è netta. La capacità, in particolare di Lega e Fratelli D'Italia, di surfare sull'ambigua autorappresentazione da forza di governo e da anomalia di sistema competitiva con il Movimento Cinque stelle, è inciampata sulla scelta del Governo Draghi e sui problemi posti dalla gestione della pandemia. In una situazione in cui l'agitazione della guerra tra poveri contro i migranti ha perso centralità, Matteo Salvini e Giorgia Meloni sono apparsi meno convincenti. La destra sembra però pagare l'astensione più che uno spostamento di voti, su cui influisce anche la scelta un po' ovunque di candidati a sindaco deboli e poco conosciuti. Alle elezioni politiche con candidati direttamente Salvini e Meloni la musica potrebbe cambiare: si illude insomma chi pensa che il risultato segni di per sé una crisi del populismo di destra.
I Cinque stelle rimangono con poco spazio di manovra. Il nuovo corso di Giuseppe Conte punta tutto sull'alleanza organica con il Pd. Una scelta che gli consente di stare al governo di città importanti ma lo relega a un ruolo governista di secondo piano, nemmeno lontano parente del ruolo movimentista e anti-casta proposto ormai quasi quindici anni fa da Beppe Grillo. Il risultato deludente della candidata alternativa a Torino e il mancato ballottaggio a Roma per Virginia Raggi sembrano dare poca forza alle ipotesi più legate allo spirito alternativo ai due poli del Movimento delle origini. Ma è facile prevedere nuove fibrillazioni e crisi tra le varie anime grilline.
La difficile ricerca di una sinistra inaspettata
In questo quadro si è mosso ben poco di incoraggiante a sinistra. Soprattutto nelle grandi città i risultati sono a dir poco sconfortanti. Le ipotesi alternative al centrosinistra, divise in un numero sempre più inverosimile di liste, hanno raccolto tutte percentuali da zero virgola a Roma, e si contano percentuali irrisorie e nessun eletto anche nelle liste alternative a Milano, Torino e Bologna. Si conferma l'incapacità degli ultimi anni di creare percorsi aperti e mobilitazioni elettorali intorno alle contraddizioni sociali del presente e non su esigenze identitarie sempre più vuote, per di più in una competizione tra loro che appare fuori dalla realtà.
Qualche esempio creativo e inaspettato arriva dalle esperienze di due città minori come Trieste e Caserta, dove Adesso Trieste e Caserta Decide con due giovani candidati arrivano rispettivamente all'8 e al 7%, e dalla Calabria dove Luigi De Magistris conferma la sua capacità di mobilitazione elettorale raccogliendo il 16% con il valore aggiunto del candidato Mimmo Lucano che raccoglie novemila preferenze, seppur la sua lista non raggiunge il quorum. Nella Napoli lasciata orfana da De Magistris però, la sua candidata Alessandra Clemente raccoglie solo il 5% e due eletti, bottino davvero desolante di quanto sedimentato dopo un'esperienza di governo di dieci anni su cui ci sarebbe bisogno di un bilancio approfondito.
Decisamente deludenti anche i risultati di chi ha provato a portare la sinistra dentro alle coalizioni di centrosinistra. A Roma le due liste in appoggio a Gualtieri, Sinistra civica ecologista e Roma Futura, raccolgono a malapena il 2% e per eleggere qualcuno restano aggrappate al ballottaggio. Rimangono tra l'1 e il 3% anche le liste di sinistra in coalizione a Milano, Torino e Napoli. Più significativo il risultato della lista bolognese Coalizione civica e coraggiosa che, appoggiando il candidato Pd Lepore, ottiene il 7%. Si tratta però della stessa percentuale raccolta cinque anni fa quando questa lista si presentava in alternativa al Centrosinistra e non aveva al suo interno l'area di Elly Schlein.
Insomma, dentro questa normalizzazione istituzionale che segna una ripresa di scena da parte della classe dirigente del Centrosinistra, l'opzione di sinistra interna sembra produrre nel migliore dei casi qualche eletto ma non è comunque in grado di mettere in discussione gli equilibri politici come in qualche caso riusciva a fare fino a dieci anni fa con i «candidati arancioni». A ulteriore dimostrazione che il problema non è riducibile solo al carattere di «voto utile» della lista ma alla ricostruzione di forza e credibilità di una proposta politica alternativa all'esistente.
La normalizzazione apparente
In questo contesto le classi dirigenti nel loro complesso possono
salutare il ritorno a una sostanziale normalizzazione politica dopo la
crisi profonda degli ultimi dieci anni e la conseguente ingovernabilità.
Ma questa apparente normalizzazione può diventare un abbaglio, perché
frutto della momentanea perdita di credibilità delle alternative più che
di una riacquistata solidità delle forze politiche tradizionali.
Tantomeno di un nuovo consenso per le politiche liberiste. Continua a
esserci un magma sociale non rappresentato, che negli ultimi anni ha
votato principalmente per il Movimento Cinque Stelle e che dopo la
delusione non è stato conquistato da nessuna ipotesi politica in campo. E
in questa fluidità permanente, l'emergere di conflitti sociali
inaspettati potrebbe mutare ancora velocemente lo scenario politico.
Giulio Calella